Va in scena da Santo Ficara l’ultimo capitolo dell’opera di
Agostino Bonalumi (Vimercate, Milano, 1935; vive a Milano). Sono tutte del 2007 e del 2008 le tele estroflesse in mostra, che testimoniano la continuità di una ricerca omogenea e rigorosa, iniziata negli ultimi anni ‘50 quando, insieme a
Enrico Castellani e
Piero Manzoni, Bonalumi fonda la rivista “Azimuth”, schierata a favore di un rinnovamento o, per meglio dire, di un azzeramento dell’arte.
Stop alla rappresentazione, all’espressività, al simbolismo: l’opera deve essere un
oggetto che abita e opera nello spazio circostante, che presenta una situazione reale: quella della tensione che, grazie a elementi metallici e lignei sottostanti, deforma la tela, la spinge fuori dai suoi confini, tanto da condurre alcune opere alla tridimensionalità.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da allora e sarebbe sbagliato continuare a analizzare l’opera di Bonalumi secondo quella prospettiva. Colpisce piuttosto il modo in cui l’artista, pur continuando a servirsi degli stessi mezzi, riesce a rinnovare i propri procedimenti e i propri risultati: rispetto alle opere degli anni ‘60 e ’70, queste recenti – lungo naturalmente tutto un percorso proseguito da allora, senza interruzioni – sembrano presentare un rientro nelle sfere dello specifico artistico.
Più che contrasti reali, i contrasti delle opere in mostra a Firenze sono come inscenati, rappresentati, risolti con mezzi pittorici. S’intuisce che, per quanto la tensione fra le parti che arretrano e quelle che fuoriescono appaia forte, niente di grave sta per accadere. Gruppi di linee parallele e oblique rispetto ai lati della tela si intersecano in maniera non cruenta, senza neanche toccarsi, in un insieme complicato dall’azione della luce, che imbeve alcune zone dell’opera, lasciandone sprofondare altre nelle profondità della tela.
Se qualcosa deve succedere nel punto d’incontro tra due linee, è appunto questo inabissarsi della tela in una sacca allungata di buio, come succede in
Bianco e in
Nero, entrambe del 2008. C’è tra le opere in mostra un solo caso (e avviene in
Blu, ugualmente del 2008) in cui le estroflessioni arrivano a travalicare i confini della tela: una piccola punta che sporge a sinistra, quasi una memoria che conferma il contenersi delle spinte entro i limiti dati.
Sono opere che uniscono l’elegante regolarità geometrica, ormai priva della drammaticità dei decenni precedenti, a una sensualità (mono)cromatica, basata su colori forti, potenti, ricchi di risonanze. Quello che ne risulta è un grande rigore formale, complicato da una complessità ormai risolta. Da una tensione che, anche se non si è sciolta, ha trovato il modo di trasformarsi in equilibrio.