Un armadietto di metallo chiuso col lucchetto, vecchio e arrugginito, sporco. Un muro scrostato su cui qualcuno ha scritto alcune parole in maniera ingenua, scorretta:
USA is a biutiful contry. Vecchie Dacia con la carrozzeria rovinata e le ruote sgonfie. Una signora che fa la spesa con gli stivali sporchi di terra, il carrello semivuoto. E, ancora, un piccolo cane in primo piano, sullo sfondo di una disordinata e deserta officina.
Sono alcuni dei soggetti delle tele di
Zoltán Béla (Targu Mures, 1977; vive a Bucarest), che sembra cercare un modo per venire a patti col difficile passato del socialismo reale in Romania, con quello che è stato e con quello che ha lasciato, senza nostalgia né rabbia, senza desiderio di cancellare né di compiangere. I resti di un’industrializzazione forzata rimangono come gusci vuoti, ma ancora centrali nella vita d’ogni giorno. Allo stesso modo continuano ad affacciarsi i suoi simboli, ormai destituiti di carisma e potere, ma tuttora riconoscibili, dotati di senso.
Su questo panorama interviene la pittura di Béla, che celebra una realtà sottotono ma vitale, capace se non altro d’imporsi alla percezione e all’immaginazione. L’armadietto di
Antonym occupa quasi tutto il campo visivo della tela, in posizione perfettamente frontale, simmetricamente al centro dello spazio, ritratto con precisione fotografica. Lo stesso si può dire delle Dacia, riprese a distanza ravvicinata, così che ogni particolare diventa importante: volenti o nolenti, siamo costretti a ritenerli degni d’attenzione.
I colori sono divisi in campiture nette, decise, e
Daily hand-bag è una composizione chiara, divisa nei tre blocchi principali del pavimento, dello sfondo e del cappotto verde della donna. Sono immagini antiretoriche ma non prive di una loro maestosità, che si confronta col ricordo ben vivo delle immagini di regime e con la loro persistente presenza, come accade in
Poster board, in cui “
i ritratti di quattro capi di stato dell’ex blocco comunista compaiono sulla parete di una fabbrica e non all’interno di un libro scolastico”, per dirla con le parole di Cosmin Nasui, che firma il testo in catalogo.
Sono immagini antiretoriche, in cui la volontà di non sfuggire alle cose è evidenziata dalla presenza, accanto a gran parte delle opere in mostra, di un oggetto vecchio, polveroso, sgualcito: una borsa per la spesa, un paio di occhiali da lavoro, un elenco telefonico del 1977, targhe in metallo.
Tali oggetti, a metà fra il cimelio e la paccottiglia, si uniscono alle tele per formare una sorta d’installazione che ne aumenta la sensazione di stralunata fissità.