Anastasia Khoroshilova (Mosca, 1978; vive in Germania) tenta attraverso il medium fotografico una lucida analisi del suo paese d’origine. Che viene filtrato in modo distaccato dall’occhio della macchina fotografica, con scatti epurati da ogni tipo di lirismo, di trasporto emotivo, di soggettività, e con i quali focalizzare porzioni di un’umanità cristallizzata in un preciso ruolo sociale. Anche i bambini, ritratti su sfondi asettici come pannelli scenografici, risultano più come un’appendice dell’oggetto che stringono tra le mani, un giocattolo, piuttosto che soggetti con una precisa individualità. Solo dai dettagli, all’apparenza insignificanti, come i lividi sulle gambe o le punture di zanzara, riesce a trapelare una sorta di trattenuto trasporto.
Come nell’iconografia tradizionale, in cui ogni santo è rappresentato con un preciso attributo identificativo che ne permette il riconoscimento e che talvolta diventa più importante, per la sua specificità, della stessa figura umana, anche i protagonisti del lavoro della Khoroshilova appaiono quasi una trasposizione fotografica della tipica tradizione russa delle icone, stilizzate, bidimensionali, affatto naturalistiche ed immote.
Anche queste immagini sono icone, con cui, devotamente, si tenta di spiegare un mondo complesso, che necessita di didascalie. Così prendono forma le sue differenti serie di lavori, come una sorta di Biblia pauperum fatta su misura per noi occidentali, con la quale l’artista prova a spiegarci il suo paese alle soglie del XXI secolo. Anche le figure della serie Islanders o quelle di 9,5% Plus diventano ora simboli di momenti passati, di istituzioni che sono divenute quasi dei luoghi comuni per chi pensa alla Russia, stereotipi che la imprigionano in categorizzazioni e allo stesso tempo imprigionano anche chi di queste istituzioni fa parte.
Forse è proprio a causa di questa staticità imposta -ed autoimposta- che Khoroshilova ha deciso di trasferirsi all’estero per lavorare, nonostante non possa fare a meno di rivolgere la sua ricerca agli elementi della propria cultura. A quegli abitanti “estranei” nella loro stessa patria poiché prigionieri di un ruolo: tra le quattro mura di un teatro, di una caserma, di una cameretta. E l’artista guarda a quel mondo come se guardasse in modo disincantato al proprio passato, divenuto il presente per altri.
sara vannacci
mostra visitata il 1 aprile 2007
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