Le piccole azioni che fanno rumore, come il rischio di perdere qualcosa appena trovato, o come le fratture tra la percezione e le spiegazioni razionali, sono come voragini nell’immaginario. Le paure, si ha un bel dire, non si esorcizzano mai; è quanto suggeriscono Lia Pantani e Giovanni Surace (il premiato duo artistico di recente generazione) che dichiarano di non volerne sapere di chiarimenti sulla natura oscura delle cose. Non spiegatemi perché la pioggia si trasforma in grandine è una grande installazione che nasce da un’attenzione maniacale e generosa verso la materia. Duecento chili di coriandoli in terracotta, ritagliati uno per uno, ricoprono il suolo della galleria; calpestati ogni giorno scricchiolano e si frantumano, andando irrevocabilmente verso il loro caduco destino. La storia delle opere umane si inscrive nella tragica parabola di creazione, realizzazione del proprio significato attraverso la trasformazione, l’inevitabile deterioramento e la scomparsa finale. I pensieri, e le azioni, però, prolungano indefinitamente il proprio messaggio con una lucida volontà di sopravvivenza; come il muro di gesso dove (grazie a un ingegnoso sistema di “annaffiamento” quotidiano) la scritta un po’ è vero si modifica, si espande, accoglie fioriture di muffe, prende il colore degli elementi presenti nell’acqua. È una “epigrafe bianca su campo bianco” provvista di sensibilità animale, e della sorte necessaria di tutte le cose create.
La materia in apparenza inerte, fermenta silenziosamente di una vita celata che la percorre. L’immanenza, fisica e antropologica, degli oggetti di uso quotidiano è depositaria di una memoria che non si estingue con l’epilogo della loro esistenza funzionale.
Patrick Jolley, con il senso del fantastico ombroso e animista che mutua dalle proprie origini irlandesi, ha registrato la resipiscente vitalità degli appartamenti abbandonati del Ballynum (il quartiere popolare dublinese, oggi demolito, che ha dato i natali a Bono Vox). Nel film realizzato in collaborazione con Rebecca Trost e Inger Lise Hansen, su commissione della Breaking Ground, l’àpeiron, indefinito e illimitato, turba la placida superficie della sostanza: materassi cadono dal soffitto, comprimendosi e distendendosi come ginnasti anchilosati, il linoleum si sfoglia, divani e letti rigurgitano le proprie imbottiture mentre sui pavimenti e sulle pareti fioriscono solchi e rughe.
Here After (Qui dopo) è un’opera grandiosa, un’epopea girata interamente in bianco e nero senza l’ausilio di luci artificiali. Il “qui” è inequivocabile, è il luogo dell’azione, la desolata scena fisica visitata da invisibili osservatori (gli inquilini di un tempo o ospiti alieni e sconosciuti). “Dopo” individua una discrepanza nella continuità temporale; è il salto fluido che, nella sua contraddizione, permette di assistere alla trasformazione di realtà dimenticate e ancora vibranti di strane, inquietanti energie.
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