Da fine anni ’30 a fine anni ’60, il gruppo scultoreo prediletto da
Marino Marini – uomo più cavallo – segue la trama irrefrenabile di una caduta. I corpi si separano, lo stile da sponde arcaiche approda vicino all’astrazione, la materia prende a disfarsi. Su ogni superficie permangono tracce della guerra, e sono crepe e sconnessioni. Allora si scopre che, nell’imprevista genesi, l’unione si è trasformata in distacco, e questo in solitudine.
Prende avvio dalla mancanza, ma con declinazioni certo più miti, anche la scelta di Alberto Salvadori, primo direttore artistico del Museo Marino Marini. All’interno del programma destinato a rivitalizzare l’istituzione monografica, da tempo relegata quasi alla sola attività didattica, Salvadori ha pensato al ciclo d’esposizioni
AssenzePresenze: idea che, nello specifico, mira a trasformare una peculiarità museografica, ovvero il prestito di opere, in pretesto d’elaborazione artistica. Infatti, nell’occasione d’esordio, con quattro lavori di artisti giovani e già affermati sulla scena internazionale si è cercato di elaborare proficuamente il vuoto lasciato dalla temporanea partenza del
Grande grido (lavoro del 1962, ora in mostra a Siena).
Berlinde de Bruyckere, con
Lichaam (Corps), sagoma equina in vero manto ricomposta su telaio ferreo – memore forse delle sostanze insieme informi e organiche di
Francis Bacon -, sottolinea l’aspetto più sofferto della poetica mariniana. È appunto questa un’interrogazione diretta sul dolore, inteso nella duplice forma di ferita superficiale e interiore.
Diego Perrone, interessato agli eventi che, pur incidendo sul reale, non si possono vedere, con un
Senza titolo rappresenta l’invisibile estruso di una fusione. La sua campana “in fieri” sembra suggerire che l’arte è tanto nel risultato quanto nel processo, così come la vita accade in ciò che rimane e in ciò che si perde.
Paola Pivi fa di
Old is Gold, monolite leggero composto da migliaia di lamelle oro e argento, una riflessione divertita sui rapporti basilari della scultura: blocco materico e sua modellazione, serialità e unicità, luce e materia.
Infine
Bruna Esposito, con
Perla a piombo, estremizzazione della verticalità e della convergenza, medita e ironizza sul “peso” dell’assenza in uno specifico punto.
Importante rilevare come le singole micro-esposizioni, a livello meramente quantitativo incapaci di raggiungere una propria autonomia, dovranno sempre essere ri-articolate dall’osservatore dentro un più ampio discorso. Per esempio, le quattro opere ora descritte riescono con difficoltà a renderci un vero impatto visivo; se però le consideriamo una “variazione” al percorso espositivo, da ripetersi in una serie costante, allora la sostanza muta radicalmente: l’operazione si rafforza in quanto dialogo sulla natura stessa del museo.
Resta da chiedersi se il pubblico saprà recepire o se invece, per le prossime occasioni, converrà affiancare a opere con dominanza concettuale altre che più si concedano al godimento estetico.