Una mostra complessa e innovativa (per esempio nell’accostare originali preziosi a copie e calchi di capolavori intrasportabili) per svolgere i portati del pensiero e degli scritti di Leon Battista Alberti. Gli intenti didattici sono evidenti fin da subito: le formelle trecentesche del campanile di Giotto, che accolgono il visitatore come in un prologo, suggeriscono l’unione con la tradizione locale cittadina, ma ancor di più con una concezione vitruviana che divide le due anime -progettazione ed esecuzione- dell’architettura. Questa guida alla lettura della mostra si rivela essenziale se consideriamo che quanto realizzato da Alberti è relativamente esiguo se rapportato all’enorme impatto delle sue idee, dei suoi testi e del suo gusto.
Partiamo dunque didatticamente dalla biografia e dalla famiglia, e indirettamente dalla situazione fiorentina e italiana all’inizio del 1400, accompagnati da documenti in parte provenienti dai vari rami della famiglia Alberti ancora esistenti, per scoprire un rapporto conflittuale di Alberti con Firenze riassunto in una frase: “Raro ci venni e poco ci dimorai” che come altre citazioni accompagnano e glossano le sale.
La terza sezione è meglio introdotta dal saggio in catalogo 1440 Roma non basta, ovvero la definizione di un momento in cui all’antichità romana vengono accostate le antichità greche, ebraiche, e egiziane in una ricerca di stimoli via via più complessi e fecondi. Dunque dalla formella ghibertiana per la Porta del Paradiso ai taccuini dei viaggiatori in Terrasanta, l’austero rinascimento brunelleschiano si tinge di esotismo, sia grazie al Concilio di Firenze del 1439, sia nel Certame Coronario, del 1441, avvenimento a cui si ricollega la fortuna del motivo decorativo della corona, che diventa un elemento ricorrente in decorazioni eseguite dal 1440 al 1460.
Si passa poi a considerare il rapporto che unì Alberti a Giovanni Rucellai e che confluì nell’elaborazione dei progetti per il Palazzo Rucellai, la facciata di Santa Maria Novella e il tempietto del Santo Sepolcro, caratterizzate da richiami simbolici ed esoterici: lo stesso stemma Rucellai viene reinterpretato da Cristina Acidini non come una semplice fortuna classica, ma come immagine apotropaica, da scoprire e riscoprire anche sfruttando le aperture straordinarie in coincidenza con la mostra.
La sezione su cui si è cercato di creare un impatto maggiore è quella dedicata al rapporto tra città e territorio, in cui dipinti e scultore sembrano aver preso forma da parole di Alberti e anche le opere ricreate in loco alludono alla passione per il fasto e la preziosità -come la copia dell’altare in porfido dalla Val di Nievole- e alla decorazione segnata dalla filologia e dalla passione archeologica, esemplata dalla Madonna Piot di Donatello (dal Louvre) con temi e motivi che confluiranno nel gusto laurenziano. Il profilo albertiano “geometra… astrologo… musico” si definisce nella sala dedicata alla scienza -nel senso più ampio- che include musica, prospettiva e strumenti di misurazione che potevano essere noti e utilizzati al tempo.
Il gran finale riserva l’incontro con La città ideale: un incontro atteso e predisposto anche dall’allestimento dell’esposizione, che si richiama ai valori cromatici dell’architettura fiorentina, ma è anche un reticolato di linee a distanza di un braccio fiorentino (58 cm circa), che corrisponde alla misura della città medievale e rinascimentale di Alberti. Secondo il curatore Gabriele Morolli La città ideale di Urbino è unica e diversa rispetto alle altre due versioni esistenti, perché sotto il dipinto esiste un disegno preciso e definito fin nei dettagli di quanto in superficie è visibile a colori. Accanto alla tavola e a sostegno della sua tesi scorrono in video le radiografie dell’opera. Questa progettazione analitica sostiene la tesi che l’ideazione dell’opera sia da riferire ad un architetto, anche se forse colorata da altra mano, e Morolli propone di riconoscervi progetti per il giubileo del 1450, voluti da Niccolo V ed elaborati da Alberti stesso, e non realizzate ma -come tante architetture da lui disegnate e descritte- destinate a dar forma eterna al sogno del Rinascimento. Quid tum?
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vorrei sapere se esiste o no un'onesta' intellettuale, dove e' finita? La mostra su Alberti e' la divagazione di un singolo, che poteva organizzare un convegno, visto l'inesistenza di opere esposte. Quelle che ci sono, sono in maggioranza riproduzioni (a gesso, per es., nel caso di alcuni capolavori di Donatello) e il bello che le didascalie recitano l'autore e il titolo come se si trattasse di originale: solo in fondo, piccolissimo si legge "riproduzione in gesso a cura di...." E visto che, a parte le scuole, choloro che vanno a vedere questo tipo di mostre -ancora una volta l'uomo del rinascimento... dopo un po' ci viene a noia - sono anziani, che non arrivano a leggere quei caratteri monuscoli, ho trovato francesi che commentavano estasiati gessi volgari, in cui lo stiacciato diventava rilievo a tutto tondo!
La mostra e' imbarazzatamente inutile, fa scena, si' per il bell'allestimento, ma credo che sia la cosa che e' costata di piu'. Una cosa buona ce l'ha: per fortuna nei video con le elaborazioni digitali di alcune opere albertiane non hanno inserito la musica, come avevan fatto per le mostre di Michelangelo giovane e Botticelli, almeno la mostra, quando non c'e' molta gente in giro, si puo' leggere (perche' e' una mostra che si legge, visto che non c'e' niente da vedere) in santa pace.
10 euro di biglietto! che vergogna!