The bathroom farebbe la felicità di qualsiasi pubblicitario di detersivi superpulenti, supersgrassanti e igienizzanti. Pieno di tracce, segni e piccoli indizi di presenza quotidiana. Il bagno è quello dello studio di
Claudio Abate (Roma, 1943), artista che ha profondamente segnato l’arte contemporanea italiana e soprattutto capitolina.
Tanti sono i segni e pregnante la presenza, quanto nitida, pulita ed esigente l’immagine. Rigorosamente in bianco e nero, il quadrato segno distintivo grafico e strutturale. Sulla riquadratura del pavimento e della cornice galleggiano le forme tondeggianti dei sanitari.
Il corpo come figura non entra da protagonista, ma è pressante nelle tracce biologiche, nei capelli, nei peli stampati nella saponetta; è incalzante nell’ossessività della visione e nella ricerca del particolare.
Undici grandi fotografie inedite occupano lo spazio inferiore della e colpiscono per il sapiente impiego e ottimizzazione della luce. Un realismo crudo, paradossale, che quasi induce nausea e sottrae violentemente le aspettative. Le opere cronologicamente precedenti sono esposte nella sala d’ingresso e sono altro rispetto a
The Bathroom: creano attese del “bello” nel percorso espositivo.
Ma subito ecco la provocazione, un’altra storia, quasi un’indagine nel luogo simbolico della pulizia. L’analisi descrittiva è condotta con perizia, con uno sguardo che cerca oggettivamente di evidenziare la trama. Una voce fuori campo scruta e narra con capacità da detective gli indizi.
L’autoritratto
Tutto sotto controllo rispetta le regole della tradizione pittorica ed è l’unico pezzo di questa serie rettangolare e verticale. È dal profondo del water, questa volta immacolato, che appare lo sguardo inquisitore e molto “mastrolindo” dell’artista.
Il nucleo delle opere “classiche” di Abate è costituito da circa venti fotografie di grande formato che impattano il visitatore appena entra in galleria. Una “
storia per immagini”, foto di installazioni e performance a partire dagli anni ‘60 fino al 2005, con la splendida
Ansel Kiefer, Sappho.
L’artista racconta con i suoi scatti l’arte contemporanea di mezzo secolo e conduce “
nel punto migliore per osservare l’opera” (Jean-Luc Monterosso), mettendo in relazione privilegiata lo spettatore con l’opera e il contesto, e rendendo perfettamente la tridimensionalità dell’azione creativa. Rispettivamente del 1968 sono
Pino Pascali, Vedova blu e del ’69
Mario Merz, Che fare.
Non semplici fotografie di opere d’arte: Abate cerca e trova con l’artista quella “
relazione empatica” che lo fa divenire “
un compagno di strada con cui costruire una relazione all’altro profonda” (Mauro Panzera), e gli fornisce strumenti per l’esatta interpretazione di un’umanità che trasuda dalle opere ritratte.