Hans Op de Beeck (Turnhout, 1969; vive a Bruxelles) ci ha abituati allo straniamento di ambientazioni che sembrano rigettare la presenza dellâuomo, ostili alle sue emozioni; a un freddo fiammingo, cristallino e inquietante. Anche quando la scena è ambientata nel deserto dellâArizona, come nel video
Celebration, il tempo e lâuomo si presentano come soggetti della scena, ma poi si rivelano dettagli trascurabili, in favore di una sospensione che il vento sibilante rende sinistra.
Nellâampio spazio della platea della galleria,
Liu Jianhua (Jiâan, 1962; vive a Shanghai), alla prima personale italiana, propone la ceramica â materiale base della sua ricerca â triturata nei rottami dello shuttle Columbia, esploso al rientro da una missione spaziale nel 2003. Ogni frammento del suo scheletro è un micromondo: teschi, oggetti dâuso comune, piccoli carri armati sono le spoglie di una tecnologia che lâuomo mette al proprio servizio per migliorare la sua vita. Nel video che completa lâinstallazione, Jianhua pone lâattenzione sulla vulnerabilitĂ dei sogni umani e lâinesorabile infrangersi degli stessi contro una realtĂ spesso tragica. Una Shanghai costruita di dadi e
fiches sembra solo lâennesima cittĂ riprodotta con materiali inusuali, un modello logoro e ripetitivo, evitabile.
Molto lontana dai sogni e dalle distanze siderali è invece la mostra di
Moataz Nasr (Alessandria dâEgitto, 1961; vive al Cairo),
A Memory Fills with Holes, che fa il punto sul mondo arabo odierno: la cartina geografico-identitaria che nelle scuole arabe sovrasta la testa di ogni alunno diviene un puzzle i cui pezzi mancanti indicano le zone teatro di conflitti civili e internazionali, le stesse zone lacunose della nostra memoria, quotidianamente bombardata da migliaia di notizie.
La ricerca dellâidentitĂ , cosĂŹ difficoltosa per popoli carichi di storia millenaria â che aspirano a scriverne una moderna, lontana da pregiudizi, stereotipi e particolarismi -, si dipana per immagini in cui giovani egiziani cercano di fuggire dal proprio humus culturale, da un patrimonio identitario che riaffiora sempre sulla pelle, provocando frustrazione e rabbia, o che li imprigiona come una madre oppressiva e tiranna. Un lavoro che chiede allo spettatore partecipazione e condivisione, non solo nel dramma, ma anche nella contemplazione estetica del disegno tradizionale degli arabeschi, proposti simbolicamente in un tessuto di fiammiferi che, con le proprie ombre, ne svelano tutta la fragilitĂ e bellezza.
I volantini minatori lanciati dagli aerei delle forze americane sul popolo iracheno diventano arazzi nella serie
Propaganda: portando in sĂŠ un riferimento alla morte (in Egitto questi tessuti diventano tende durante i riti funebri), ogni pannello, ricamato con motivi geometrici e calligrafici islamici, illustra in toni quasi grotteschi, da striscia di fumetto, il tentativo dâintimidazione verso ogni manovra di reazione del popolo occupato.
La tragedia irachena e la visione che ne dĂ lâartista è messa letteralmente a fuoco nel dittico
Under Fire: un Iraq fatto di fiammiferi, i cui colori diversi afferiscono alle molte etnie che compongono la sua popolazione. A un pannello identico è stato appiccato il fuoco: il cadavere carbonizzato dellâIraq, arso sotto lâeffetto domino di 14.800 fiammiferi, giace come una condanna. Alle fiamme sono scampati, accidentalmente, due fiammiferi: finchè câè vitaâŚ