È un’arte cinese che rifugge da qualsiasi definizione univoca, da ogni tentativo di vederla come fenomeno, quella messa in vetrina per l’ultima ricca passerella della galleria Continua, che porta la mostra a San Gimignano dopo l’esordio nella sede di Pechino. E che anzi pare proprio voler fare sfoggio di diversità.
O forse no. Forse coglie nel segno Hou Hanru, che nel saggio in catalogo propone un motivo che si pone come unificante nella propulsione della creatività cinese autoctona. Ma prima di entrare in questa congerie, una riflessione si impone. Una distinzione necessaria, perché un conto è parlare di artisti cinesi di origine, ma che per formazione ed esperienze sono ormai acquisiti ad un ambito internazionale (gli esempi non mancano, potremmo citare Cai Guo-Quiang, Chen Zen, Yan Pei Ming, e anche questa mostra ne presenta almeno un paio: Ai Weiwei e la pur giovane Kan Xuan), altro è parlare di artisti che –pur vantando anch’essi qualificate occasioni internazionali– hanno sviluppato la propria personalità e sensibilità con maggiore contiguità alla storia cinese.
Tornando ad Hanru, egli dunque individua un grande fenomeno, che pone alla base degli sviluppi socio-culturali cinesi negli ultimi dieci anni, anche nelle arti visive: quello della esplosiva urbanizzazione. “La principale guida nella modernizzazione della Cina, e nel suo muovere verso un potere globale. Le differenze fra le diverse città” –prosegue il critico- “sono state rapidamente annullate e sostituite da quelle che Rem Koolhaas chiama ‘Generic Cities’, città come non-luoghi, banali, ma affascinanti”. Una cultura quindi che si libera rapidamente di tradizioni molto forti, che unifica tutto, annulla le peculiarità in un’alienante corsa verso indistinti modelli occidentali.
Anche le dinamiche della creatività bruciano tutto molto rapidamente, percorrono in cinque anni i passi che l’Occidente ha percorso in un secolo, senza gli indispensabili tempi di mediazione e di metabolizzazione. E seguendo i ritmi frenetici della società, questi artisti tendono a mantenere la società come interlocutore. O forse come bersaglio.
Con risultati che oggi a noi non possono che apparire a volte un po’ datati. Un tardivo Pop rivisitato a livello iconografico, e con l’ausilio delle tecnologia. Come le fotografie della giovanissima Cao Fei (Guangzhou, 1978), che fustigano il neo-consumismo cinese, popolandosi di personaggi stravolti e bestialmente trasfigurati dall’orgia fashion (Burberrys). O come le sculture di Zheng Guogu (YangJiang, 1970), con una stampante Epson che prende il posto di un bassorilievo ligneo in un enigmatico assemblage con un violino Ehru. Divertenti le animazioni grafiche computerizzate –viste anche allo stand di Artefiera– di Gu Dexin (Pechino, 1962), che giocano con personaggi stilizzati con pochi tratti, alle prese con situazioni esistenziali limite, spesso mossi da irrefrenabili quanto irrealizzabili pulsioni sessuali.
Diverse, come si accennava, la profondità e libertà di ispirazione comunicate dal bellissimo video A monk, di Kan Xuan (XuanCheng, 1972, vive e si è formata ad Amsterdam). Scena fissa con tre diverse inquadrature giustapposte, tutte puntate sulla statua del monaco, ma con la camera montata su un dispositivo che restituisce immagini tremanti e quasi sincopate. Che più di ogni parola, più di ogni gesto vitale riescono a comunicare la spiritualità che emana da quella figura quasi deforme, infondono anima all’inanimato.
Il tour continua. Ecco la Tazza di perle di Ai Weiwei (Pechino, 1957) e il film “epico” di Lu Chunsheng (Changchun, 1968). Poi l’ambiente iperreal-poverista di Zhuang Hui (Yumen, 1963) e il reportage pittorico di Yan Lei (Hebei, 1965), che documenta la stessa mostra nell’allestimento cinese.
Un altro centro della galleria Continua, comunque, che mostra aspetti poco conosciuti di una realtà ancora lontana, una realtà ben più ricca e variegata rispetto al manierismo Pop-americano che fino a poco fa sembrava caratterizzare l’arte cinese.
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Il video della mostra su Exibart.tv
massimo mattioli
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