Nell’ideale
fuga prospettica dell’allestimento verso l’enigma “
et quid amabo nisi quod aenigma est?”, il sommo principio dechirichiano indica la via. Campeggia enorme nell’ultima sala della mostra al Museo Piaggio, contornato dalle opere degli anni ’60, le più discusse ma altrettanto suggestive. Possono essere state viste e riviste in molte occasioni, ma il fascino che sprigionano resta invariato.
Operazione artistica interessante e controversa quella di produrre copie e varianti dei primi capolavori, enfatizzando con ciò il primato dell’idea rispetto alle sue varie realizzazioni. Dalla fine degli anni ’30,
Giorgio de Chirico (Volos, 1888 – Roma, 1978) rifà i suoi
monumenti della Metafisica appartenenti alla serie dei “grandi manichini”, dove il senso nascosto delle cose è ispirazione e al tempo stesso fonte di mistero. E a Pontedera trovano sede
Ettore e Andromaca,
Le Muse inquietanti e
Interno metafisico con biscotti,
oltre alle trentadue opere che segnano le tappe salienti del percorso artistico di uno dei maggiori protagonisti del Novecento.
I biscotti di de Chirico sono il quotidiano che diviene sublime, è il privato che assurge a “metafisico”. Il maestro era un ghiotto di dolci e nelle
Memorie della mia vita ricorda di essere stato ispirato da certi interni di botteghe ferraresi o da vetrine piene di biscotti e leccornie dalle forme strane e assolutamente
metafisiche.
In continuo viaggio da Volos in Grecia, dov’era nato nel 1888, tra Firenze, Monaco, Ferrara e Parigi, il perenne esule sviluppa una pittura in cui domina il tema del viaggio e il concetto di
Stimmung evocativa.
L’atmosfera del senso morale imprime tutta la sua opera e la memoria del passato familiare entra prepotente nel dettaglio e nella metafora pittorica. In
Piazza d’Italia (1962), nella malinconia di una piazza solitaria, fra loggiati e monumenti del passato, passa sbuffando un treno e svetta altissima una ciminiera.
La contaminazione della “città ideale” con la tecnologia e la fabbrica esalta il contesto e il contrasto sociale. E quale luogo poteva, meglio di Pontedera, esaltare il valore dell’arte dechirichiana in relazione ai luoghi e ai momenti complessi esistenziali e sociali dell’uomo del nostro tempo?
De Chirico dipinge sempre la sua vita: la ferrovia a memoria del padre ingegnere ferroviario, gli anni della guerra, la scena classica dell’addio in
Ettore e Andromaca, la sua Venezia degli anni ‘50. E sempre asseconda il dialogo ideale col
Magnifico Simposio, dove i grandi maestri del passato sembrano ispirarlo e aspettarlo.
Nell’ultima produzione, l’artista si autocolloca nel simposio evocato trent’anni prima e si rivolge nel
Trovatore a se stesso, sottolineando nella trasfigurazione dell’autoritratto quanto il valore non stia nella verità ma negli
enigmi che essa nasconde.