“
Quel tuo sguardo bruciante di tenerezza / lo rivediamo oggi più calmo, / persa l’asprezza dell’invettiva / risentiamo la tua voce viva”. Sono parole di Alessandro Parronchi a 25 anni dalla morte di
Ottone Rosai (Firenze, 1895 – Ivrea, 1957). Ma, osservandone le opere raccolte a Palazzo Medici, sembra ancora necessario trovare per lui la giusta distanza critica tra la vicenda dell’uomo e quella dell’artista. Questa mostra dà l’impressione di poter fornire appunto l’occasione di meditazioni critiche aggiornate sulla sua figura: una ristretta selezione di cinquanta opere, su cui ci si può ben concentrare, riesce a toccare tutti gli aspetti e i temi fondamentali della produzione di Rosai, anche quelli più controversi, come la dichiarata seppur sofferta omosessualità, e ripercorrerne, in una breve sezione bibliografica e con gli apparati in catalogo, la biografia e la fortuna critica.
Nel giudizio su Rosai ha sempre pesato molto la scelta di fiorentinità dei temi:
Via Toscanella e
Via Erbosa erano chiamate provinciali, senza intendere il senso che aveva in quegli anni, fra il 1922 e il 1930, una prima rivalutazione storica dell’esperienza macchiaiola a opera di Mario Tinti, che di Rosai fu amico, e di Emilio Cecchi, che tentavano di ricostruire una via italiana alla modernità. Questo atteggiamento critico -basato su criteri di progresso e individualità fortemente modellati dalle ideologie- prevedeva anche un continuo rimando alla tradizione dei quattrocentisti toscani, più volte richiamati per Rosai: da
Masaccio al
Beato Angelico.
Ma la Firenze di Rosai era anche culturalmente fecondissima e piena di contrasti: dalle battaglie futuriste alla stagione delle riviste, dai capolavori di architettura fascista agli intellettuali delle Giubbe Rosse,
in quel momento fra le strade di Firenze s’incontrava tutta la modernità, e l’opera di Rosai ne incarna certamente le inquietudini. Insofferente all’Accademia, Rosai incrocia presto
Marinetti e i futuristi di “Lacerba”, e ne sono una prova i suoi richiami quasi naïf nelle prime opere, con rimandi a
Rousseau il Doganiere, a
Cézanne nei paesaggi.
Dopo la guerra arrivano i silenzi metafisici delle sue strade e delle piazze, come avviene in
Incantabilità del tempo (via San Leonardo), e anche i suoi nudi maschili -tra i pochi scampati a una vera e propria
damnatio memoriae volta a cancellare il segno dell’omosessualità- che non violentano mai l’involucro formale, ma sono scarnificati, messi a confronto, da Luigi Cavallo, con quelli deformi di Bacon, e che attestano la sua modernità, quel voler essere “
nient’altro che un artista”.
Rosai non rinnegherà mai le proprie scelte via via anarchiche, futuriste e fasciste. Perché la sua politica è principalmente nella sua opera, dedicata agli esclusi, in una visione antitetica rispetto ai miti di modernità e superomismo proposti dal fascismo, a una città vissuta con amore e odio, definita “
addormentata, pidocchiosa e cenciosa”, ma che rimane riferimento imprescindibile. Con una coerenza artistica che offre l’unica salvezza davanti allo smarrimento ideologico e alla solitudine, portati dall’agognata modernità.