Fotografie del periodo iniziale è il nome che lo stesso
Luigi Ghirri (Scandiano, Reggio Emilia, 1943 – Roncocesi, Reggio Emilia, 1992) attribuisce a un corpus di scatti dei primi ‘70, esposti in occasione della retrospettiva del suo lavoro che si tenne a Parma nel ‘79. Il 1970 è un anno cruciale per la biografia del fotografo, come rivela egli stesso in un’intervista dei primi anni ’80. È l’anno in cui, ventisettenne, inizia a “
fare sul serio” con la fotografia, pur avendola avuta in testa fin da quando aveva tredici anni. Guardando queste foto, appare evidente come Ghirri già sapesse cosa fare della fotografia, dal punto di vista tecnico ma soprattutto da quello concettuale.
E concettuale è una parola fondamentale per la storia di Ghirri, che a partire dal 1969 comincia a frequentare un gruppo di artisti, tra i quali
Franco Guerzoni e
Claudio Parmiggiani, da cui imparerà a considerare il proprio lavoro come progetto piuttosto che come realizzazione. E a lavorare su serie tematiche piuttosto che su singoli scatti.
La mancanza di quest’ultima caratteristica, tuttavia, è forse l’unico elemento che differenzia questo primo corpus dal resto della sua opera e che lo definisce realmente come un
periodo iniziale. Si tratta, infatti, di foto in qualche modo disparate, non legate da un filo conduttore, scattate in diversi luoghi dell’Italia e dell’Europa.
I soggetti delle fotografie in mostra, quasi tutte
vintage print, sono già quelli del Ghirri successivo: immagini prese dall’ambiente urbano (scritte sui muri, cartelloni pubblicitari) oppure oggetti e luoghi familiari, comuni. Opere d’arte osservate e marine affollate. Tutti soggetti che si possono ricondurre a un’idea di banalità: lo spazio urbano saturato dai segni della modernità o da quelli del passato e dell’abitudine, i nuovi spazi
a una dimensione creati dal boom economico del decennio immediatamente precedente. Ghirri non si arrende a questa banalità, non la denuncia e non le sfugge, ma cerca di trasformarla.
Ripresi con un’inquadratura frontale, che rimarrà tipica del suo modo di operare, gli spazi, le cose, gli oggetti sono inchiodati a una fissità che si fa
struttura. Una struttura che a volte è geometrica e altre volte mobile, come nel caso delle foto delle opere d’arte, in cui gli sguardi e i punti di vista s’incrociano: quello del pubblico che osserva tele o sculture, quello del fotografo e, infine, quella dell’opera stessa.
Gli spazi a una dimensione si complicano, diventano rigorosi, quasi maestosi, oppure sfuggenti e ambigui. E, quasi ad anticipazione della serie
Infinito (1974), in cui Ghirri fotograferà il cielo per 365 giorni, in
Modena 1970 c’è un cielo di carta stropicciato, di quelli che si usano per il Presepe, che riempie completamente lo spazio della foto. La luce crea un sistema di segni, quasi una griglia, sulla superficie della carta.
Una griglia che, ci s’immagina, prosegue oltre i margini della foto. All’infinito, appunto.
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grande Ghirri!