L’ipercubo è l’estensione a
n dimensioni (lettera usata per indicare
un generico numero naturale) del concetto di cubo, proprio come
Base/Progetti per l’arte è l’estensione a
n dimensioni del concetto di realtà
espositiva. Proprio come un ipercubo, Base – nel corso dei dodici anni di
attività – è riuscita a convogliare a Firenze un numero impressionante di
artisti internazionali d’alta qualità, un volume impensabile per la maggior
parte delle realtà espositive italiane e non.
Gli interventi stessi hanno
cancellato di volta in volta l’angusto spazio espositivo, elevandolo a potenza
e smaterializzandolo in altrove: si pensi solo all’esposizione inaugurale di
Sol
LeWitt,
Red
Room del 1998.
Anche l’ultimo protagonista,
Olivier Mosset (Neuchâtel, 1944; vive a Tucson,
Arizona), con il progetto
ZZ porta avanti una riflessione sullo spazio come
contenitore culturale in senso esteso del termine.
La scultura
Z accoglie all’entrata, procedendo
ritmata sino al margine ultimo della parete, occupando così gran parte dello
spazio disponibile nella sala.
Z impedisce una visione d’insieme di se stessa, concedendo
solo un punto di vista: non si può né aggirare né scavalcare, ma solo osservare
di fronte, proprio come una sorta di dipinto.
Stravolgente allora il fatto che
nasca da una precisa opera di
Barnett Newman,
Zim Zum, da ‘tzim tzum’, termine
cabalistico che indica “
il processo creativo divino”, ideata per un progetto di
Sinagoga nel 1963. Mosset ribalta la scultura di Newman adagiandola sul
terreno, per conferirgli un orientamento spaziale certamente più materialista,
dettato peraltro dal titolo che, ridotto alla lettera ‘Z’, perde il profondo
contenuto iniziale.
Se
Z diviene una sorta di dipinto, la
fotografia dell’Harley Davidson diviene una scultura. L’immagine scolpisce,
infatti, due tratti della cultura americana di matrice “classica”, allo stesso
tempo colta e popolare: il mostro su due ruote, se da una parte coincide con
un’iconografia cinematografica ben precisa, accostabile al sogno di libertà
della controcultura, la decorazione sul serbatoio rimanda, al tempo stesso, a
un campione della libertà a stelle e strisce anch’esso più che noto, ovvero
Jackson
Pollock. Il
ritratto è calzante, essendo entrambi gli elementi amalgamati nell’odierna
visione dell’America anni ’50 e ’60, visione che percepisce tutto sul medesimo
piano semantico.
Amalgamare, convertire,
trasformare lo spazio: un gigantesco wall painting di colore giallo annulla,
disintegrandola, la parete dell’ultima sala. L’intervento, pur avendolo riproposto
altre volte in altrettanti spazi, è definito dall’artista site specific, poiché
– come giustamente rileva lui stesso – è sempre diverso da sé, rapportandosi
ogni volta a situazioni diverse per relazionarsi con fruitori provenienti da
ambiti formativi eterogenei, così da ottenere una complessa sfera relazionale
grazie a un intervento minimale.
I tre interventi, così come Base,
paiono quasi spiegare quanto lo spazio e il tempo siano concetti del tutto relativi.