Toni graduati fra l’azzurro e il blu quasi indistinguibili, come nella visione di chi contempla il cielo oppure il mare. Osservando, trovare oltre la luce e oltre i colori un misterioso velo solitario, abbandonato alle dolci, infinite modulazioni del vento. Di cosa è fatto il tetto infinito del mondo? Con levità, l’installazione
Swimming blue, presentata nel candore spaziale della Galleria Furini, tende a uno dei motivi profondi dell’arte: rintracciare la naturale poesia dell’esistente.
Si tratta della prima personale italiana di
Benoît Pailley (Normandia, 1978; vive a Parigi e New York), autore pressoché esordiente in ambito artistico ma già da tempo affermatosi come fotografo professionista still life. Deriva naturale tra generi? In parte è possibile, perché a considerare serie di scatti tipo
Escape Artist e
Façades, realizzate in passato per le riviste “Double” e “Sleek”, risulta evidente che Pailley non ha mai utilizzato la tecnica in maniera asettica, quale strumento per mere rappresentazioni commerciali. Nelle sue composizioni, con costanza è affiorata una personalità decisa, in grado di equilibrarsi fra concettuale, ironia e critica sociale. Tant’è che alcuni oggetti, dapprima impiegati sui set fotografici, in seguito sono divenuti elementi per opere visive (ne sia esempio il caso di
Passport presso la Flux Foundation di Ginevra).
Inaspettatamente è proprio l’esposizione aretina a costituire, per la sua diversità, una cesura rispetto al passato. In quest’occasione l’artista ha rinunciato all’abituale perizia tecnica per realizzare un video dall’aspetto amatoriale. Inquadratura a mano, definizione dell’immagine modesta e un soggetto quasi casuale: un telone incerato, messo a copertura di un palazzo in costruzione.
A dispetto della semplicità, o forse proprio per essa, la visione dei lembi in perpetuo alzarsi e ricadere – nella variazione di due video e tre sequenze fotografiche – esercita sull’osservatore una profonda fascinazione, assimilabile all’ipnosi del fuoco. Dunque, se lo stato di apparente trascuratezza guida l’interesse verso le espressioni elementari della realtà, si può ritenere che l’intento estetico di Pailley, ovviamente non nuovo, consista nel suggerire la bellezza laddove sembra mancare.
Analizzare ulteriormente lo specifico
darsi e sparire di
Swimming blue – attraverso dicotomie quali immanenza/sostanza, coscio/inconscio e così via – pare, oltre che prematuro, inficiante la freschezza dell’esordio. Più giusto è, per adesso, limitarsi alle impressioni, in attesa dei futuri sviluppi. Magari auspicando che l’artista prosegua in questa ricerca di tracce poetiche quotidiane, piuttosto che cedere a certa moda d’infinite elucubrazioni.