Niente più schizzi né bozzetti. E niente più quadri dipinti in atelier. Il pittore abbandona l’Accademia e si sposta in campagna, pronto a cogliere le impressioni della natura. A colpi di spatola, oltre a quelli del più classico pennello. È la rivoluzione impressionista, che sconvolge il panorama artistico della seconda metà dell’Ottocento e condiziona, indelebile, il modo di “fare” pittura. Dalla scelta dei soggetti alla tecnica utilizzata per dipingerli.
Attorno a questo fenomeno si concentra la mostra a Palazzo Strozzi,
Impressionismo: dipingere la luce. Le tecniche nascoste di Monet, Renoir e Van Gogh, che esalta il celebre movimento artistico, portando allo scoperto tutte le tecniche introdotte dagli artisti della scuola francese, partendo dal confronto diretto tra i “rivoluzionari” della pittura e i “colleghi” dello stesso periodo, ancora(ti) seguaci della tradizione accademica. Centrando subito il bersaglio, nella prima sala, con
Adamo ed Eva trovano il corpo di Abele di
Jean Jacques Henner affiancato alla
Casa di Falaise, nebbia di
Claude Monet.
I primi a uscire dagli atelier per creare
en plein air sono gli artisti del Barbizon, che nei loro paesaggi accantonano il “colore locale” abbandonandosi alla percezione istintiva, quindi individuale, della natura che li circonda.
Modus operandi ben distante da quello neoimpressionista: “
Istinto e intuito contro scienza e metodo”, sottolineava
Paul Signac, tra i maestri in vetrina a Firenze.
Nascono così nuovi strumenti e metodi per catturare in modo nuovo luce e colore e assecondare la pittura en plein air nelle sue mille difficoltà: dalle spatole ai pennelli piatti, dai cavalletti da campagna alle scatole con tubetti di colore utilizzabili in ogni dove, fino al telaio prospettico di
Vincent Van Gogh utilizzato (la mostra lo testimonia) per dipingere il
Ponte di Clichy, che fa da cartello all’esposizione.
Attrezzature che rivoluzionano per sempre la pittura, riportate in scena a Palazzo Strozzi; supportate da innesti tecnologici che consentono di scoprire le opere anche ai raggi x o sotto la lente (virtuale) di ingrandimento. Per avvicinarsi, come mai prima d’ora, alla stravaganza impressionista. Scoprendo che “istinto” non significa pura improvvisazione: anche gli “artisti indipendenti” inseguivano la perfezione, scegliendo addirittura (e minuziosamente, pure) le cornici da applicare alle loro tele. Non solo. Tabelle, tracce e “pentimenti” si ritrovano anche nei quadri impressionisti e non sfuggono agli occhi degli esperti, o almeno non più; a oltre un secolo di distanza e con l’aiuto della tecnologia applicata all’arte, che la mostra fiorentina permette di scoprire; oltre a proporre sessanta opere, alcune mai uscite dal Wallraf-Richartz Museum di Colonia.
L’ultima sala è dedicata ai più piccoli, con una sorta di “sala giochi” dell’arte, in linea con la tradizione di Palazzo Strozzi. Lodevole iniziativa di promozione tra i giovani. Unico avvertimento: che il marketing non prevalga sulla ricerca espositiva. C’è già un ingombrante “air conditioned” che campeggia sui manifesti della mostra, che non ha bisogno di questo per attirare i turisti.