Dopo la rassegna Dal Realismo alla Pop Art, la città labronica ospita una grande mostra del pittore Afro-Libio Basaldella (Udine 1912- Zurigo 1976). È esposta la produzione degli anni tra il 1935-1955, periodo di transito dall’astrazione alla figurazione. Un percorso attuato attraverso una lenta spoliazione di pensiero, una progressiva decantazione e riduzione semantica della figura, cara e irrimediabilmente necessaria al pittore. Almeno fino al 1955.
L’allestimento delle 98 opere, che forse con troppa apprensione didascalica nei commenti dei curatori guida il visitatore, individua due percorsi. Il primo che comprende gli anni dal 1935-1947, di stretta referenzialità alla figura, documentate nei paesaggi e ritratti da Foro Romano del 1935, all’Autoritratto del 1939. È l’Afro degli anni romani, che lo vedono vicino a Scipione, Mafai e Cagli, e in cui sono la poetica del ‘primordio’ di Cagli e il tonalismo di marca veneta ad influenzarlo.
Del 1945 è l’accostamento al neocubismo: per Afro coniugato più su Braque che su Picasso. Un cubismo non tanto di militanza o di adesione a un’imperante koiné europea, ma in cui Afro cercava l’emancipazione dalla piana rappresentazione del soggetto. Di questi anni troviamo opere come Natura morta con Macinacaffè del 1945, Natura morta con tenaglie del 1947, Negro della Louisiana del 1951. Il 1948 é l’anno in cui la critica registra “la svolta” di Afro, in cui il pittore scioglie l’indugio sull’astrazione, e che la mostra sottolinea ponendo proprio al ’48 una cesura, da cui si apre il secondo percorso.
Sono i soggiorni a New York tra ’50 e ’54, a segnare per Afro il pieno riconoscimento di ragioni più profonde di vocazione all’astrazione. Importante sarà l’incontro con Gorky, della cui pittura Afro dice “mi ha dato coraggio, mi ha insegnato a cercare la mia verità senza falsi pudori. A cercare solo dentro di me”.
Coraggio che in un breve turno di anni porta Afro ad imprimere un’accelerazione nella metamorfosi della figura, e che l’allestimento registra. Dalle tele del ’52, che ancora conservano una presenza figurale, verticale e totemica, si giunge nel ’54-’55 alla conquista di un’ astrazione lirica, in cui la figura ormai oltre il governo del pensiero, risale dalla memoria per abitare la regione del sogno. “Così non ho paura della parola ‘sogno’, non ho paura della parola ‘lirica’ o della parola ‘emozione’”, scriveva.
Chiude il percorso una sala che attesta delle prove di Afro seguenti al 1955, con poche tele tra il ‘58 e il ’70. Con una caduta dello zelo filologico che ha guidato l’allestimento fino al ‘55, la mostra dunque rinuncia a seguire oltre le sorti della figura, e a testimoniare dell’ulteriore passo che di lì a poco avrebbe compiuto. Del disagio che sarebbe intervenuto nel rapporto con la figura e del successivo allontanamento del pittore da quegli “elementi figurativi di cui prima avevo sempre creduto di aver bisogno” e che “ora mi apparivano detriti malinconici, familiari come cifre ma non vere.” La metamorfosi della figura sarebbe giunta infatti al 1957 fino al suo detrimento. Afro stava per congedarla per accogliere dentro la nuova stagione informale una forma più libera: “una forma che si dilati in maniera inquietante e un colore che si accenda ‘fuori misura’…”.
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