Algonquin Park, September (2001). La nebbia transita lenta e
implacabile attraverso lo schermo; prima inghiotte e poi restituisce le due
colline solitarie e cupe che emergono incombenti dalle nuvole. Non ci sono
segnali distintivi, eppure la corposità dell’isola conquista il piano di
ripresa, se ne appropria e lo trasmette al visitatore come pura estetica del
sublime. Con una citazione della pittura paesaggistica della Hudson River
School e una dotta capacità filmica.
È al buio la cripta del Museo
Marino Marini. Non è facile destreggiarsi fra scalini, scivoli e corridoi, ma
certo è che la mancanza di luce aggiunge suggestione ai dieci film di
Mark
Lewis (Hamilton,
1958; vive a Londra).
I lavori selezionati per quest’esposizione
comprendono il periodo 1998/2009, che investe il nucleo centrale di una ricerca
sul linguaggio cinematografico volta all’arte, all’immagine “pittorica”, al
solo gusto della percezione visiva ed emotiva, ma non uditiva. Le pellicole in
35 mm, prive di montaggio e sonoro, captano completamente l’attenzione per i
quattro minuti circa della loro durata.
L’artista canadese, protagonista
del padiglione nazionale alla 53esima Biennale di Venezia, non è molto noto in
Italia e questa mostra fiorentina ne mette in luce le doti di essenzialità,
raffinatezza e compiacimento estetico.
L’esposizione al Marini è la
riproposizione della rassegna presentata la scorsa primavera al Man di Nuoro,
ma l’ambiente così diverso dal precedente la rende “altra”; non trasforma le
opere, ma le incorpora in un esistente pieno di suggestioni del passato e le
rende soggetto/oggetto fra i
Monoliti del museo. L’allestimento esalta inoltre ulteriormente le
proiezioni, quasi a crearne un habitat idoneo per ognuna.
Sulla parete più lontana della
sala principale, l’ultimo film di Lewis,
Hendon F.C. (2009): una lunga panoramica
lenta e circolare su un campetto da calcio, con i bambini che corrono in un
paesaggio suburbano. La camera si muove impercettibilmente, dall’ampiezza dello
spazio alla distesa d’erba sottostante; sembra ruotare nell’aria, alla ricerca
della terra, dei fili d’erba che pian piano occupano e giganteggiano nel campo
visivo.
L’ultimo film sonoro,
The Pitch (1998), è proiettato sulla parete
delle scale, mentre nelle due alcove laterali opposte si fronteggiano, al piano
interrato, le immagini di
RearProjection (Molly Parker) del 2006 e
The Fight del 2008. In entrambe le
proiezioni si nota la destrutturazione e la ricostruzione di un set. Gli attori
recitano in studio e occupano il primo piano; la retroproiezione è eclatante in
RearProjection,
meno percettibile in
The Fight.Nel primo video passano le
stagioni, mentre l’imperterrita attrice indossa una veste leggera e inadatta.
Una dissociazione che colloca lo spettatore
“all’interno dello spazio
filmato”
mentre
ne osserva lo
svolgersi con gli occhi della
donna. Che, immobile e indifferente, ostenta e offre un punto di vista al quale
non c’è adesione né piaggeria.