Entrando da Bagnai, si è subito attirati dalle opere di
Paolo Leonardo (Torino, 1973) che si intravedono nel secondo spazio della galleria. Una sequenza di acrilici e chine su carta in nero e rosso, basati su immagini di film e su alcune foto scattate dallo stesso artista, che creano una striscia lunga quanto le quattro pareti.
Alcune immagini rivelano subito la loro provenienza, altre si prestano a più ipotesi. C’è il primo piano di un volto di donna sdraiata sul letto, con gli occhi aperti, impaurita; un bacio; una macchina ferma davanti alle insegne di una strada; un uomo con le ali; tetti su cui qualcuno sta correndo. L’importante però non è riconoscere il film da cui le immagini sono tratte; anzi, sembra che quello che si deve fare sia lasciarsi riempire la retina dall’immagine divenuta
topos, che acquista forza dalla ripetizione, dall’apparire l’eterna replica di se stessa. Del resto, non c’è in ogni film una donna a letto impaurita, un bacio, qualcuno che scappa sui tetti, un uomo con le ali?
Allo stesso modo, inutile distinguere le immagini filmiche da quelle che nascono da fotografie private. Non diventeranno anche quelle immagini di un film, se non lo sono già diventate? Aumenta la forza di suggestione di queste opere il loro monocromatismo e il fatto di essere confuse, tendenti a sfrangiarsi man mano che ci si avvicina alla parete su cui sono poste. Come un meta-film che rincorre se stesso, ripetendosi in loop sulle pareti della galleria.
Quello di avvicinarsi per vedere le cose sfrangiarsi progressivamente è un lavoro che
Maura Banfo (Torino, 1969) ha già fatto al posto dell’osservatore, prima che ci si ponga di fronte alle sue fotografie. Immagini apparentemente statiche, esposte nella prima sala, alle quali si torna dopo aver subito la forza di attrazione dell’opera di Leonardo.
Le foto sono state scattate con la tecnica del macro in interni di case – piuttosto sontuose, per quello che si può giudicare – soffermandosi su elementi come l’angolo di una cornice dorata, una parte di tavola apparecchiata, fiori dipinti, alberi intravisti dietro pezzi di tende. C’è un particolare che è identificato in ogni foto e che costituisce in alcuni casi il mezzo di accesso all’immagine: come la forchetta che appare come una sorta di freccia verso la parte posteriore della tavola.
Intorno, però, gli oggetti iniziano a perdere consistenza, fino a sfumare quasi completamente. Impossibile allora accedere all’immagine, trovare punti d’appiglio in essa. La fotografia restituisce un’immagine inquietante dell’ambiente più familiare al mondo, la casa, facendo tornare alla mente il concetto freudiano di
Unheimlich.
Sennonché, al centro della sala un nido grigio di alluminio, forma elementare della casa – cromaticamente neutra – sembra offrire un sostegno intorno a cui gravitano le fotografie.