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Viandante, non ci sono vie / la via si fa camminando”, scriveva Antonio Machado. Fa un certo effetto entrare in un deposito medievale di Siena e ritrovarsi di colpo trasportati in desolati paesini turchi, lungo le coste coreane, davanti ai capolavori delle chiese romane. Si diventa un po’ erranti, immersi in un coreografico buio che spalanca finestre su angoli noti o meno del globo.
Guardare il mondo stando fermi è ciò che pratica l’ascetica
Kimsooja, quasi un’ombra che duplica lo spettatore, mentre nei suoi video la folla di Lagos o di New Delhi la sommerge. Alla trasparenza della coreana, che oppone la non-identità al flusso eterogeneo di popoli, fa da contraltare la forte caratterizzazione di
Shirin Neshat (
Soliloquy, 1999), alle prese con mondi contrapposti, Occidente e Oriente. Il senso di emarginazione della donna, velato da una serenità malinconica in casa propria, e lo spaesamento di fronte alla fredda società americana esprimono la stessa emarginazione in due forme diverse. Il viso e il corpo dell’artista sono ancora il terreno negato e celato su cui si misura il dolore. È sempre il corpo che ossessiona
Piplotti Rist (
Aujourd’hui, 1999), girovagando per un supermercato: la nudità selvaggia, che si sovrappone nelle sue fantasie alle merci, è il frutto del peccato partorito dalla società mediatica occidentale.
Il
Mosè di
Michelangelo è il porto in cui si arena lo sguardo di
Antonioni (
Lo sguardo di Michelangelo, 2007), che si perde in un muto dialogo e in una sedotta immersione fra le pieghe della scultura e le espressioni dei volti. Puro canto del cigno di un maestro e lettura totale di un’opera, che sembra come restaurata dal cinema. I colori del tramonto, trasfigurati da
Seoungho Cho (
Orange factory, 2002) in pastelli chiari, sono i segni del viaggio mentale dell’artista attraverso la natura ed esplorano le potenzialità pittoriche del video.
L’errante è colui che produce un senso (o un non-senso) nell’atto stesso di muoversi: una famiglia occidentale che si affanna frettolosa senza procedere di un passo (
Hans Op de Beeck), un barbone-sabotatore che impone il suo corpo come arma di resistenza e distruzione (
Jonathan Glazer), un burlone che corre per le città agitando modellini di architetture (
Jordi Colomer).
Ma il movimento può anche ancorarsi alla memoria (
Matthias Muller) o allo sguardo e diventare un viaggio a volo d’uccello per i luoghi assolati di un paesaggio senza nome (
Martijn Veldhoen), immedesimarsi nell’obiettivo di una telecamera che registra la frenesia di Hong Kong (
HC Gilje) oppure in un lento piano-sequenza che incide e attraversa edifici in verticale e orizzontale (
Jonas Dahlberg).