Quella del gioco è una delle metafore congeniali alla base del pensiero artistico, così come del suo commento; ha una sua dignità estetica e affonda le radici nelle pulsioni più umane. Nel momento in cui il mazziere di turno si prepara al gioco e mescola le carte, invoca il caso o la fortuna a benedire la propria abilità.
Emanuele Becheri (Prato, 1973) invece mescola una sola carta, la “sua” carta: una sintesi fragile e delicata, elegante e mai retorica tra caso e progetto. Se l’arte può essere azzardo, sguardo in avanti e indietro, dubbio e sintesi, non può permettersi di non essere progetto. E se il progetto non si dispiega nel suo fare, rimane solo teoria: per questo la mostra è significativamente ideata in due momenti, spaziali e concettuali.
In apertura lo sguardo è catturato da due pareti opposte: su una sono appesi ciò che paiono riduzioni dei grandi cartoni neri di
Shining che dominano la sezione centrale dello spazio (
Senza titolo, 2004-2006). Dall’altra, una velina ripiegata e incisa secondo un procedimento alla cieca (
Carta doppia piegata, 2005); su un podio, un lapis bruciato (
Senza titolo, 2008). Questi tre lavori sono la “carta” che l’artista mescola, allegorie di opere e mezzi che sono la matrice del suo punto di vista, del suo progetto inteso come decostruzione dello stesso: ciò che all’apparenza sembrano semplici fogli di carta nera sui quali si cristallizzano segni ingarbugliati non sono altro che le carte copiative utilizzate per le sue carte dal 2004; la
Carta indica la storia, il passato, la valigia dell’artista; il lapis bruciato l’atto. Supporto, filtro e atto come categorie cardine del pensare artistico.
Quelli che l’artista vuole indicare non sono però simboli o icone per testimoniare il suo percorso. Non si tratta di un operare per didascalie, bensì per allegorie, dove il senso non si coglie nella presentazione degli oggetti in sé: il mezzo può diventare opera a sé stante, purché rifondato e ri-suggerito. L’ossessività nelle modalità d’uso del mezzo diventa un feticcio-altro offerto all’osservatore.
Sulle pareti dello spazio centrale dominano i grandi cartoni neri di
Shining (2007). Originariamente fondali usati negli studi fotografici, diventano per l’artista supporto e luogo di vita del suo disegno. Un disegno decostruito delle prerogative di messa in ordine della natura, poiché è la natura stessa a lasciare le proprie tracce. Dal centro, delle chiocciole delineano il loro percorso fino al termine del cartone, a creare un unicum fra traccia e supporto, grazie all’umidità luminescente che tende a increspare il cartone, in un’ideale sintesi tra natura e cultura.
Stessa matrice sottintesa al lavoro posto a terra: un tappeto di lana circolare cui è stato dato fuoco (
Senza titolo, 2008). È l’energia della natura a compiere il suo sforzo disegnativo, a imprimere la superficie che diventa orografica -e il ricordo va ai
Rilasci e a opere precedenti- e soffice, quasi materna nel senso misterico del termine. Il cerchio evocato diventa anche il suggerimento di un dualismo circolare tra ordine e caduta, che non si può risolvere in una sintesi certa, bensì liquida. E che continua a interrogare se stessa, prima che lo spettatore o l’artista.