In occasione dell’edizione del 1993 del Premio Marche, che ospitava una mostra di
Eliseo Mattiacci (Cagli, Pesaro, 1940; vive a Roma), Renato Barilli scriveva che il tubo è “
una specie di cellula primigenia dell’intero universo” dell’artista pesarese, usato per la sua capacità di prestarsi a configurazioni ogni volta differenti e per la sua disponibilità a farsi conduttore di forze. A distanza di oltre sedici anni da quell’affermazione, e a più di quaranta da quando il tubo ha fatto la sua prima apparizione nell’opera di Mattiacci, l’installazione site specific alla Cantina Icario non può che confermare quelle parole.
Al centro della sala sta infatti un enorme groviglio, un ammasso intricato di trucioli metallici, di sottili elementi tubolari, filiformi, che creano un gorgo apparentemente immobile, una massa solida ma vibrante, che diventa il fulcro organizzatore dello spazio. Il
Tubo del 1967, un grosso cannello snodabile in ferro lungo 150 metri, con cui Mattiacci aveva invaso le sale di diverse gallerie – opera anti-monumentale, praticabile, modificabile – cede qui il passo a un inavvicinabile, inestricabile e maestoso elemento composto da un numero infinito di piccoli tubi, percorsi da un’energia meno visibile ma ricca di risonanze.
Una trentina di opere su carta – che, come informa il curatore Marco Meneguzzo, appartengono a “
due cicli, il primo realizzato alla fine degli anni ‘80, il secondo praticamente inedito” – si dispongono sulle pareti della sala in relazione al
Corpo celeste. Alcuni di questi lavori sono appoggiati a terra, altri appesi alle pareti, ma obliquamente. Come se la forza centripeta di cui l’ammasso è portatore avesse sconvolto l’assetto usuale delle opere. Tanto che alcuni di questi lavori sono stati addirittura risucchiati dal gorgo, quasi scomparsi nella sua massa oscura.
Le carte richiamano, nella quasi totalità, un immaginario cosmico: orbite e pianeti che, dunque, chiariscono l’attrazione gravitazionale che li lega all’elemento centrale. L’energia che il
Corpo celeste accentra attraverso ogni singolo filo è resa anche attraverso il rapporto che questo crea con l’ambiente: la parte centrale del pavimento della sala, quella su cui è posto, è di vetro, e permette così di vedere l’area sottostante e le botti di vino che vi sono conservate.
Allo stesso tempo, il vetro funziona da specchio per la struttura del soffitto: così, il corpo accentra in sé, a livello non solo metaforico ma anche letterale, tutto lo spazio circostante. Da quello concreto della sala fino allo spazio astrale delle opere su carta, che si riflettono anch’esse nel vetro del pavimento. Creando un ulteriore incrocio tra i livelli dell’opera.