Ha inizio dal complesso sperimentare la fotografia durante gli anni ’70 l’arte di
Michele Zaza (Molfetta, Bari, 1948; vive a Roma) e, come un’intima riflessione che si arricchisce col tempo, ha assunto nell’attualità la forma matura dell’indagine spirituale.
Nella personale da Enrico Fornello –
Paesaggio magico il titolo – i due momenti, il prima e l’ora, sembrano ricongiungersi – o tentare di farlo – attraverso un sistema di richiami e rimandi da parete a parete. L’impressione d’acchito è che il corpo resti protagonista perenne, ma che sia mutato il modo suo d’esporsi: da oggetto di passate meditazioni più contingenti, legate a identità e rapporti sociali come in
Mimesi, a mezzo presente di coscienza universale. Scopriamo così un nuovo stato, marcato da segni precisi.
Innanzitutto la direzione. Le opere recenti, perlopiù serie ritraenti un volto ravvicinato alternato a un simbolo, materialmente
escono dalla cornice con piccole sculture lignee tutt’intorno. Idea necessaria questa, affinché la doppia conflittualità sottesa – tra fotografia e installazione, tra noi che guardiamo un ritratto e che ne siamo di conseguenza guardati – si risolva con una traslazione dal piano visivo orizzontale a quello verticale. I segni in legno sono indizio che si sta mirando in alto, cioè che quest’arte è rivolta tanto all’umano quanto al divino; non a caso, in
Paesaggio magico l’apertura di mani si trasforma in diafano volo di farfalle, o di angeli.
Il corpo. Lungi dall’esser negato, si fa piuttosto dimora della spiritualità, e i suoi gesti strumento di rivelazione. Ovvia conseguenza che nella cosmogonia in atto non ci sia spazio per le
cose, a meno che non siano puro simbolo di altro/alto, per esempio la mollica di pane al posto delle stelle, l’ovatta al posto delle nuvole.
I sentimenti. L’artista insiste sulla propria famiglia, incaricandone i componenti quali modelli dell’intero genere umano, poiché in essa risiedono gli affetti, i disturbi, le costrizioni più profondi. Liberarci dai traumi sanguigni – il letto nuziale materno, la figura paterna, la verginità della figlia – significa già comprendere, nella doppia accezione del termine, la totalità del mondo.
Si arriva infine al mistero. Che cos’è quello strano oggetto totemico al centro di tanti quadri? Androgino nel suo apparire fallico e vaginale insieme, informe per la logica illogicità delle variazioni, è forse il distribuirsi del nostro pensiero? Il nostro limite e la nostra superiorità? Se così fosse, i paesaggi magici, onirici, infiniti di Zaza, appena turbati dai pericoli del formalismo, potrebbero essere interpretati come incontro fecondo tra anima e corpo.
Da segnalare che la mostra s’inserisce nel più ampio
ProgettoSettanta a cura di Elena Re, un’iniziativa che ha per finalità l’analisi attenta e approfondita degli artisti-fotografi di quella stagione. I primi autori trattati – attraverso galleria, cataloghi e presenza in fiera – sono stati
Giorgio Ciam,
Luigi Ghirri e, appunto, Michele Zaza.
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Il grande Michele Zaza! annarella