Ricostruire un’immagine completa e unitaria sembra impossibile, anche se le tele sono una attaccata all’altra, a formare un’unica superficie. Ottanta autoritratti di
Simone Fazio (Modena, 1980) -parte di una serie di cento- occupano per intero una parete dello spazio espositivo del Gestalt Studio.
Nelle tele, rigorosamente in bianco e nero, il busto diventa una macchia nera, ben definita sullo sfondo bianchissimo, che occupa la parte bassa della tela, a volte bilanciata in alto da quella dei capelli. Mentre il volto, sfocato e grigiastro, insegue estremizzandoli i cambiamenti nell’espressione, nella posizione, nell’attitudine. Si crea nel passaggio immediato fra una tela e l’altra un flusso convulso, congestionato, sincopato; un ritmo fatto di sbalzi, sussulti, interruzioni. Come un confuso diagramma esistenziale che registra i segni -più che il senso, che sembra al di là di ogni possibile raggiungimento- di una incomprensibile presenza.
Più composta, almeno dal punto di vista formale,
Santa Margherita, un’opera composta da trenta tele, che occupano la parete opposta della galleria. Questa volta, però, i singoli lavori sono posti a distanza di sicurezza l’uno dall’altro come se, tenuti insieme dal riferimento alla storia della santa, non subissero la forza centripeta che spinge gli autoritratti quasi a scontrarsi.
Le tele ripercorrono le vicende di una donna vissuta nella seconda metà del XIII secolo. Dopo aver concepito un figlio, pur non essendo sposata, con un uomo che viene assassinato -e il cui cadavere lei riesce a ritrovare nel bosco, grazie all’aiuto di un cane- la futura santa Margherita si dedica in seguito alla cura dei malati, per poi vivere da contemplativa.
Bilanciata dall’equilibrio fra tele a sfondo chiaro e scuro, dal leitmotiv del primo piano della donna, la serie è però attraversata da un’inquietudine palpabile, che rende quasi diabolica l’espressione della “protagonista”, dal corpo scheletrico e dai capelli da Medusa, che trasforma le cure in moderni medicinali con tanto di brand, che fa sembrare l’aureola (unica nota di colore in tutta l’esposizione) una sorta di aura malsana, radioattiva. Come a dire che non basta il riferimento narrativo a sciogliere i nodi.
Per finire con un trittico, dislocato in zone diverse della galleria. Le due ali laterali mostrano entrambe due donne dal busto nudo, i pantaloni e i capelli come profonde macchie nere che sembrano spingere verso il fondo dell’immagine. Il corpo e il viso sono scheletrici, contorti, segnati, sembrano sul punto di abbandonare lo stato solido, di liquefarsi. Mentre è solidissimo, nella parte centrale, un gruppo di teschi: maestosi, vivi, quasi aggettanti. Come ritratti finalmente composti.