Nascono con Photoshop le opere di
Esther Janssen (Maastricht, 1976; vive a L’Aja), in mostra da Tossi in occasione del festival
Olandiamo.
Rappresentante della cultura olandese contemporanea a Firenze, Janssen presenta immagini fisse e glaciali di case, giochi di bambini, paesaggi. I colori sono creati, secondo le parole della gallerista Cokkie Snoei, con “
più di cinquanta strati alla volta che rimangono tutti accessibili, così che Esther può continuare a cercare il colore, la trasparenza e l’equilibrio del dettaglio esatti”. Questo procedimento rende i campi di colore talvolta nettissimi e allo stesso tempo penetrabili, come se si potessero attraversare tutti i livelli di colore usati. Altre volte, invece, i colori risultano sfocati, imprendibili dall’occhio, che è costretto a girarci intorno, incapace di fissarli direttamente.
L’immagine intera vive in qualche modo di quest’alternanza fra estrema precisione e indecifrabilità. Si crea come una trappola per lo sguardo, che passa da un campo di colore all’altro, da un oggetto all’altro, per trovare i segni di una presenza, il preannunciarsi di un’azione. C’è una stanza da letto tutta rosa in cui, però, sotto il letto e dietro il comodino si annidano ombre spessissime. L’oscurità, il silenzio (dovuto anche all’assenza umana, intensificata dalla presenza di una cornice per foto vuota) sono più forti dell’apparente tranquillità della scena.
Così come avviene in
Untitled 8: una casa vista dall’esterno, agghindata con luci forse natalizie (a tal punto che sembra addirittura incendiata), è immersa nella parte destra nell’oscurità del cielo e degli alberi, mentre dall’altra è agitata da un cielo sereno che si sta riempiendo di nuvole scure. A metà fra
Magritte (
L’impero delle luci) e
Arancia meccanica.
Da un estremo all’altro, da immagini create esclusivamente con mezzi digitali a oggetti fatti a mano, dal principio alla fine. Si tratta delle sculture in skai e di quelle in cartone, ancora una volta con al centro quasi esclusivamente case.
Le sculture in skai presentano versioni morbide di abitazioni che sembrano sul punto di gonfiarsi, stritolando chi è all’interno. Allo stesso modo, anche se con mezzi opposti, le minutissime case di cartone sembrano fatte apposta per attacchi claustrofobici, impressione che aumenta in misura direttamente proporzionale alla precisione con cui le casette sono realizzate. Tutti spazi in cui non viene certo voglia di abitare.