Una curatela d’eccezione rende singolare la mostra senese dedicata alla giovane arte sudafricana: nel selezionare i partecipanti a questo che sarà l’ultimo evento al Palazzo delle Papesse, Lorenzo Fusi si è avvalso della collaborazione di celebri artisti di quel Paese, ossia
Kendell Geers,
Marlene Dumas,
Berni Searle,
Minette Vári e
Sue Williamson. I quali hanno fornito uno spaccato attendibile e concreto di quel contesto artistico emergente.
Nessun luogo comune, o almeno non troppi. Quindi, nessuna reminescenza tribale, niente perline, tamburi, trofei o manufatti lignei, ma interventi differenziati, neoconcettuali, site specific, poetici, patetici, densi d’un attivismo culturale che denuncia lo stato di fatto della realtà comune nella quale si compiono, ma soprattutto il desiderio d’emancipazione da troppo facili etichette di “africanità”.
Il percorso inizia con una pattuglia della polizia, parcheggiata all’ingresso del Palazzo da
Simon Gush. L’auto è vuota, ma con un allarmante lampeggiante acceso che segnala prima di tutto l’assenza delle forze dell’ordine, per poi farsi frammento d’un accaduto: la performance sonora, tenuta dall’artista nel corso dell’inaugurazione. È un lavoro percettivo e sensoriale il tunnel cieco
The Black Passage (2006/2008) di
James Webb, che conduce il visitatore verso un rumore sordo come l’angoscia che lo accompagna nel percorso verso un’auspicabile via d’uscita, impossibilitata da una barriera di casse acustiche impilate che lo riversano, con il suono, nell’oscurità. Claustrale anche
Night journey (2005/2008), la video-installazione di
Colleen Alborough: un ambiente labirintico di veli e stoffe cela una figura distesa e ricostruisce vagamente gli interni dov’è stato realizzato il video, ossia una grotta dentro la quale una persona si muove spasmodicamente alla ricerca vana d’una via di fuga.
Il consistente corpus video e fotografico in mostra è indubbiamente indicativo dell’urgenza di registrare una realtà sociale in rapido cambiamento. Non a caso, i video di
Ismail Farouk si concentrano sulla trasformazione metropolitana. Lo
urban photographer si muove fra le township, antico simbolo dell’apartheid, e i nuovi centri del potere, adoperandosi nell’annotazione dell’inarrestabile palingenesi psico-geografica sudafricana, che ridefinisce luoghi e persone.
Se il territorio sta subendo una frenetica metamorfosi, anche lo stile di vita delle persone e i loro usi e i costumi si stanno allineando a quelli occidentali. Lo dimostrano la scultura dell’uomo con la testa dentro il sacco di
Nicholas Hlobo e gli scatti di
Nontsikelelo “lolo” Veleno, nei quali l’artista posa vestita con capi giovanili e alla moda, che riflettono concettualmente sull’“
uguaglianza” intrinseca al global branding.
Mikhael Subotzky, noto per il suo reportage fotografico nelle celle sovraffollate delle carceri sudafricane, documenta il lento trascorrere del tempo alla
Giudecca Women’s Prision (2007) di Venezia.
La questione mamma/detenuta-figlia propone una visione chiara del carcere, cioè di un luogo che offre un’immagine speculare in cui ambedue i detenuti (madri e figli) riconfermano il rapporto simbiotico che li unisce, ma spogliato di tutto, isolato, dove la sola dimensione della donna consiste nello specchiarsi nel bambino, in un rapporto di reciproca oppressione. Parla di donne anche
Zanele Mugoli quando sottrae alcune scene dall’intimità della vita lesbica delle sudafricane e quando blocca in
Faces & Phases (2007) alcuni volti di donne che si rivolgono all’obiettivo come allo spettatore, in cerca di riconoscimento e rispetto per la propria omosessualità.
“
Seducono e al tempo stesso ci inorridiscono” le vesti fluttuanti, libere dai corpi, cucite con tessuti eleganti e parti animali da
Nandipha Mntambo. Analizzano invece esclusivamente il corpo i due video di
Churchill Madikida: in
Skeletons in my closet (2004), due mani si strofinano come in un amplesso; mentre sulla parete opposta, in
Virus (2005), le eliche in movimento del Dna umano si alternano alla composizione molecolare del virus dell’Hiv.
Le coloratissime carte dipinte da
Moshekwa Langa sono composte da vignette accostate fra loro e riempite con frammenti di frasi evocative i vari stati emotivi dell’artista. Un altro tipo di sovrapposizione è quella di
Uplift: The Mountain, Palazzo delle Papesse (2008), realizzata da
Sean Slemon stendendo sul pavimento di un’intera sala vari strati di moquette, per costruire sculture simili a curve di livello, sulle quali il visitatore, in barba alle abituali nozioni di preziosità dell’opera d’arte, può tranquillamente camminare.
Una mostra che presenta un Sudafrica piuttosto aggiornato in materia d’arte contemporanea, con artisti coscienti della situazione internazionale. Ma soprattutto attenti ai cambiamenti e coinvolti nelle riforme attinenti alle problematiche politico-sociali interne alla propria Nazione.