L’opera è duplice: l’architettura di
Gianfranco Agazzi (Lugano, 1949) e la creatura fotografica di
Maria Mulas (Milano, 1956). Come in un gioco di specchi, si affrontano in un dialogo di consonanze, di rimandi, di luci. Una
riflessione continua fra il piacere dell’occhio e quello della mente.
La dialettica non si ferma tra l’opera costruita e l’opera ritratta, ma ne scandisce un percorso. L’inizio sta nell’integrazione fra arte e natura, nella capacità di trasformarla senza deturparla, nel costruire con rispetto e intelligenza. Tanto che, “
sollevando lo sguardo dal lago o abbassandolo dai monti”, si aggiunge alla soddisfazione visiva immediata “
il ricordo della storia, il piacere dell’architettura”: così Giorgio Bonomi, curatore della mostra, descrive questo racconto per immagini. Un vissuto fra le opere (edifici pubblici e privati) di Agazzi nelle strade di Lugano e la macchina fotografica di Maria Mulas, che non si limita a fissare un attimo, ma cerca d’impadronirsi di un
proprio racconto visivo.
Gli scatti dell’artista riescono così a catturare il particolare del “costruito”: delineano gli ampi spazi, si vestono di poetica e traguardano l’obiettivo nel sopra e nel sotto di quello spazio, nel prima e nel dopo. Punta un mucchio di neve candida che contrasta col rosso dei mattoni della
Nuova Scuola Media di Lugano Besso (1995) o i rami scheletrici che impattano di ombre le specchiature delle finestre della
Residenza Corte dei Faggi.
L’ombra di un tronco d’albero si staglia definita sulle striature del cemento liscio e grezzo, scandisce la stagione per il fabbricato che la riceve, ripara gli occhi dallo straordinario riverbero del cielo. Gli squarci di luce “dipingono” i vetri a specchio dei balconi ed esaltano l’eleganza e il ritmo dell’architettura modulare.
Come il concetto di costruire si misura e cambia col tempo e con i luoghi, anche la fotografia necessita di metamorfosi. Scatto dopo scatto, Maria Mulas rompe gli schemi e ripete alcune sequenze fino all’ossessione: “
Il soggetto ritratto riflette, alla lettera, ciò che a sua volta sta guardando”, scrive l’artista. “
Come se si ribellasse così alla propria condizione di preda, alla propria passività”.
Fra le opere in mostra, colpiscono le immagini dell’
Autoparcheggio di piazza Castello (2005): un alternarsi di vuoti e pieni, l’estrema eleganza dell’inquadratura, la straordinaria efficacia nell’esaltare la modularità geometrica delle strutture. Per un momento, l’occhio dell’artista insegue qualcosa che riesce invece a sfuggirgli. E manifesta la vertigine che può procurare quell’attimo di cattura immortalato nella fotografia.