Con la naturalezza propria alla crescita organica,
aggiunta a quella passione che dovette animare i mecenati d’altri secoli, la
collezione d’arte ambientale di Giuliano Gori
torna ad arricchirsi di nuove
opere. La Fattoria di Celle ha infatti chiamato a sé, per gli spazi insieme
solivi e arcani del grande parco, un binomio artistico d’ineccepibile qualità.
Il tedesco
Anselm Kiefer (Donaueschingen,
1945; vive a Barjac), dagli esordi delle
Besetzungen –scatti fotografici in posa
nazista -, ha fatto dell’arte un contraltare critico alla storia, sostituendo
alle generalizzazioni della ricostruzione storiografica il relativismo totale
dell’esistenza. Da tale impostazione sono scaturite opere – e forse sarebbe
meglio definirle luoghi o memorie – in grado di rapportare estremi irriducibili
quali la kabbalah, lo gnosticismo, il cristianesimo.
Nella fase più recente il processo si è persino
intensificato, con un passaggio dagli avvenimenti, che per quanto importanti
mantengono sempre un carattere episodico, all’evento primigenio: Kiefer
presenta nella ripristinata Cascina Terrarossa un’installazione che ha la
sostanza di un’ipotesi cosmogonica (creata a Barjac invero, però qui trasposta
con tanta meticolosità da aver richiesto tre anni di lavoro; dunque a tutti gli
effetti opera ambientale, non “ambientata”).
Cette Obscure Clarté qui tombe des étoiles, titolo nonché citazione
ossimorica proveniente da
Le Cid di Corneille, è una genesi che si combina attraverso
profondità, superficie ed etere.
Dapprima vi sono due enormi rettangoli di
piombo fuso la cui trama, in base alla distanza, può costituirsi come
figurazione di osservatori astronomici puntati verso le stelle oppure come
saturazione indefinibile di materie. Le costellazioni vi gravitano dappertutto,
sopra e sotto senza distinzione, segno di uno scambio vicendevole tra scienza e
mistica.
Il passaggio successivo, per tramite di una scala,
riconduce alle origini: con i noti libri “pesanti” e alcuni pezzi di coccio,
l’artista evoca il mito di Pandora, peccato d’orgoglio dell’uomo e dispersione
del male sulla terra. La scritta parietale “
Shevirat Ha Kelim”, ‘rottura dei vasi’ in ebraico,
è inoltre riferimento a un’interrogazione continua. Dunque, l’arte come tensione
umana alla ricerca.
Marco Tirelli (Roma, 1956), da parte sua, realizza un doppio intervento.
All’interno di Casapeppe instaura un dialogo ideale con i
wall drawing dell’amico
Sol LeWitt, proponendo grandi disegni a
tempera e carbone. Sono figurazioni topologiche – quindi suscettibili in ogni
istante di mutare stato – esemplarmente a metà tra percezione e intelletto.
Come rivelazioni fantasmagoriche, le immagini si concedono in penombra, quel
tanto che basti a vederle: poiché un maggior chiarore ne comporterebbe una
perdita di purezza. I termini di riferimento sono precisi: l’oggettività pura
di
Malevic e
la portata misterica di
de Chirico.
Nel parco, invece, ci sono quattro oggetti plastici in
corten; per gioco e per necessità Tirelli ha scelto di sconfinare nella
scultura, pur nel rispetto delle precedenti creazioni. È realmente un nuovo
punto d’inizio: le forme, uscite dal quadro e concretizzatesi, assumono un
aspetto singolare “
di ospiti che stanno per andarsene”. Per scoprirne le direzioni,
attenderemo i successivi passi.