Scrive Artaud che nella vita c’è un momento, breve, brevissimo, in cui la mente e il linguaggio sembrano cogliere qualcosa d’indicibile, di trascendente, “
come se si avvicinasse all’essenza delle cose”.
Questo istante magico e assolutamente raro aleggia negli spazi della galleria, dove
Pierluigi Febbraio (Roma, 1976) presenta la sua ultima personale,
summa di lavori nuovi e meno nuovi. Colpisce l’unitarietà del percorso espositivo. Quasi a seguire orme lievi eppure indelebili di un viaggio all’interno del proprio Io, di cui ogni opera rappresenta una tappa. “
Un piccolo trauma che nasconde un dramma sussurrato”, si legge nel testo di Viviana Siviero.
Nella prima sala, lavori già visti che, però, acquistano significati altri in questa nuova luce, insieme emblematica e reale. L’indagine sulla dimensione infantile e i suoi mostri è ora più universale, sedimentandosi in una prospettiva a-storica. Se l’assenza di profondità nel disegno suggerisce un mondo immaginifico, il rilievo disomogeneo della malta micacea – che riveste le immagini dei tanti Sé dell’artista – assume una qualità meta-reale. Come una superfetazione dell’anima, un deposito organico di elementi sottili. Si fa più esplicito il valore simbolico della rappresentazione. F
ra le righe è possibile ravvisare l’“archetipo dell’innocente” di stampo junghiano, inizio del travagliato percorso dell’uomo verso l’autocoscienza.
Nella sala che condivide una parete con la chiesa di San Francesco (vi è affrescata la
Leggenda della Vera Croce), un’installazione mozzafiato, per l’intensità empatica con l’interlocutore e per l’equilibrio compositivo, frutto di
vis poetica, concettuale e formale. Ancora, per la qualità vibrante – quasi sonora – della radenza luminosa. Spiove azzurra la luce sul muro in pietra viva, sui sassi bianchi in circolo attorno al lucido scheletro di un’altalena. La forma cuspidata sembra ritualizzare il totem infantile sospeso nel vuoto, soffocato dal blu di un cielo irraggiungibile.
L’atmosfera è pregna di spiritualità sottesa: “
Mi sono lasciato andare all’ambiente abbandonandomi alle visioni”, ricorda l’artista. Un processo creativo su più livelli: quello psicologico che attinge dall’esperienza autobiografica e l’altro, più enigmatico, da un mondo arcaico senza tempo e senza luogo, affiorato nell’inconscio.
Infine, a ritmare lo spazio che fa da collegamento visivo ed escatologico tra le due sale, dodici leggii da orchestra. Sostengono frammenti di pietra argentina come spartiti di sinfonie liricamente tragiche. Sulla candida asperità del supporto lapideo, tratteggiati a olio, occhi, chiusi a volte in una suggestione alla
Bernardí Roig sulla
difficoltà del vedere. E ancora: bocche, nasi, porzioni di visi adulti imprigionati nella materia, fissati nella tensione di recuperare la propria interezza.
“
Sono un uomo che porta il suo fardello e vaga lungo un sentiero, ma a tratti il sentiero è invisibile” (Antonin Artaud).
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Visitando la mostra si ha l'impressione che l'artista abbia raggiunto una maturità tale che solo l'esperienza, intesa come vissuto, come crescita interiore e scontro, che solo la vita riesce a generare.
L'istallazione ha il potere di catturare il riguardante, la luce, le ombre, l'atmosfera in toto, il percorso stesso evocano un senso di pesantezza, di qualcosa d'irrisolto, che non è riuscito ad andare oltre.
Una mostra ben organizzata.
ERRATA CORRIGE:
volevo precisare che i leggii dell'installazione sono dieci e non dodici e che la pietra è brasiliana, non argentina.