La collezione di Bernhard August Von Lindenau (1779-1854), frutto del filantropismo illuminista di un barone e uomo politico al termine della carriera, comprende centottanta dipinti italiani dal Duecento al Cinquecento. Donata alla sua morte al museo cittadino di Altenburg, nel cuore della Turingia, dal 1988 la collezione gode di una rinnovata attenzione grazie al progetto di catalogazione corredato da esposizioni a cura di Milkòs Boskovits (nel 2005 al Museo di San Marco sono state esposte una ventina di tavole fiorentine). Per Santa Maria della Scala, si tratta invece della prima tappa di un ciclo di mostre che proporranno le raccolte di opere senesi custodite all’estero.
La qualità dei lavori è indiscutibile. Ma, analizzata l’interessante ricostruzione del polittico di
Lippo Memmi di San Paolo a Ripa d’Arno e le ipotesi sulla Pala di
Guido da Siena, si perde il filo del discorso poiché sono tralasciati i nessi fra le opere esposte. Non si aggiunge nulla di nuovo ai problemi storico-artistici e si tradisce l’impostazione critica di mostre recenti che inquadravano un contesto e i suoi rapporti con i grandi artisti (si ricordi per tutte
Duccio. Alle origini della pittura senese, il cui catalogo è un vero strumento di lavoro per gli studiosi).
Capolavori smarriti, senza uno schema unitario che ne spieghi il senso né un’adeguata presentazione museografica (i cartellini non indicano nemmeno la provenienza delle opere) o una luministica che si trattenga dal ripetere la solita penombra hollywoodiana. Qualche dialogo tra la fredda eleganza di
Sano di Pietro, la vivacità espressiva di
Giovanni di Paolo e l’avvolgente gentilezza di
Taddeo di Bartolo si può ancora improvvisare, ma l’allestimento spesso incatena le tavole o sul fondo delle teche o in improbabili soluzioni ad angolo, come le due tavolette di un dittico di
Pietro Lorenzetti. Non comprendendo il carattere tridimensionale degli oggetti, anche i trittici da devozione privata vengono esposti frontalmente, con poche eccezioni, fra cui una Madonna firmata sul retro da Giovanni di Paolo.
Resta da capire se esporre una collezione ottocentesca possa anche essere un’occasione per ricostruirne ragioni, tempi, pratiche e vicende. Se una catalogazione attenta può comunque essere un beneficio per gli addetti ai lavori, se ne potrebbero mostrare più organicamente le conclusioni. E dato che la retorica del “capolavoro riportato a casa” stanca facilmente, se accanto alla collezione del barone c’è una Pinacoteca o un Duomo di tutto rispetto, i capolavori permanenti dell’arte senese non è difficile trovarli.