A cura di Pierluigi Tazzi, ecco la prima personale italiana per Chen Chieh-Jen, artista quarantaquattrenne di Taiwan.
La galleria ospita le fotografie ed un nuovo video, mentre la Chiesa di San Matteo è interamente occupata dal maestoso video che dà il titolo all’intera mostra: Lingchi – Echoes of a Historical Photograph. Il lavoro è del 2002, ma non mostra affatto i segni dei due anni passati: ed è un primo ottimo segno, in un territorio –quello della videoarte– occupato da troppe opere che invecchiano nel volgere di mesi.
Punto di partenza è la famosa fotografia, scattata in Cina nel 1905, che ha occupato la scrivania di Georges Bataille per un decennio suggerendogli addirittura, per vie segrete e oscure, la nozione stessa di informe: un giovane viene pubblicamente scuoiato vivo. Il video di Chen, composto da tre proiezioni affiancate, anima la foto, rendendo lo spettatore partecipe dell’evento.
Le tre riprese, coincidenti all’inizio, offrono ben presto punti di vista opposti: quello della vittima e quello degli spettatori, dei carnefici. Durante la tortura, alle crude scene del supplizio si affiancano quelle che sembrano visioni del martire: rovine, forme nel cielo, ombre. Il punto centrale dell’immagine di riferimento è infatti l’estasi, congiunta al dolore fisico: orrore e rapimento, del resto, si sono quasi sempre sovrapposti, anche nella cultura occidentale. Chen Chieh-Jen riesce ad alimentare la tensione dello spettatore nutrendo il suo interesse, guidandolo in una zona insolita e misteriosa; l’idea di “spettacolo” e di rapporto reale, attento con un pubblico sorregge l’intera opera.
Ciò che rende così speciale ed importante Lingchi è la sua capacità di non cedere quasi mai al didascalico, al superfluo, al decorativo, come la scelta del tema e persino quella del bianco e nero facilmente potrebbero implicare. Anche l’uso del ralenti – pur teoricamente discutibile – non nuoce eccessivamente al risultato finale. L’atmosfera è sospesa, senza essere stucchevole.
Si sente scorrere un’energia veramente diversa da quella che pervade la maggior parte dei video recenti, abitualmente innocui e compiacenti: questo lavoro ha un impatto (che non vuol dire ‘effetto’), una potenza davvero notevoli. E non perché scandalizza, affatto. Piuttosto, perché riesce a rendere estremamente elegante una scena di tortura, perché la crudeltà accede qui ad un livello di consapevolezza successivo, si piega finalmente ad un messaggio.
Il messaggio, questo ospite sgradito per tanta arte degli ultimi quindici anni, torna ad incarnarsi in un’opera, rendendola completa.
L’unico videoartista che abbia raggiunto questo livello nel panorama artistico attuale è forse Paul Pfeiffer, il quale ha saputo talvolta piegare il digitale ad esprimere l’agonia e la trascendenza.
christian calandro
mostra visitata il 20 novembre 2004
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