Nonostante la concomitanza con l’evento Palio,
Forme in movimento mantiene l’autonomia di una mediazione artistica a “buona distanza” dalla festa popolare e dagli spazi iperconnotati delle singole contrade. Le opere di
Mario Ceroli (Castelfrentano, Chieti, 1938; vive a Roma) sono infatti collocate in un percorso urbano tra alcuni “luoghi franchi” della città: quelle logge, palazzi, spedali che sono da sempre spazi di attraversamento e incrocio, cuore della sfera pubblica senese.
Si tratta di un
in situ che si fa per montaggio: le opere esposte non nascono programmaticamente in relazione al luogo, ma la collisione con la città e con l’architettura che le accoglie ne rinnova la carica e attiva nuovi dialoghi nel tempo e nello spazio. Il titolo della mostra ben condensa la ricerca formale che contraddistingue le sculture selezionate nel percorso di Ceroli: da
La Cina (1966) a
La battaglia (1978), la massa scultorea si sfalda in
sagome, forme/icone bidimensionali che dispiegano dinamicamente nello spazio un’accezione moderna di scultura seriale e cinematica. Persino nei massicci corpi di
Cavallo e
Cavallo con gualdrappa (1984-85) -entrambi sotto la loggia della Mercanzia- i volumi si sfaldano in mille tasselli di legno dai cromatismi differenti e la compatta massa materica si trasforma in assemblaggio modulare, giuntura e costruzione artigianale che conferisce ai corpi un movimento intimo.
Si tratta di una ricerca formale calata però nella storia delle forme dell’arte: ognuno di questi lavori implica anche il movimento temporale di un dialogo con antecedenti illustri (come le battaglie di
Paolo Uccello), una memoria condensata nell’opera stessa e trasfigurata in materiali e punti di vista nuovi. I luoghi della città contribuiscono a questo dialogo memoriale in modo decisivo e, talvolta, lo arricchiscono di nuovi anacronismi: il grande
Sole (1989) in vetro colorato nel cortile della Rocca Salimbeni oscilla come una moderna vetrata modulare davanti al rosone della chiesa retrostante, richiamando l’icona gialla e oro del sole San Bernardino, celebre simbolo declinato talvolta nelle vetrate delle chiese per esaltarne la luminosità. Anche la marcia delle grandi sagome seriali de
La Cina (visione profetica dell’armata di guerrieri in terracotta scoperti dieci anni dopo nella tomba dell’imperatore Qin) appare potenziata nel lungo atrio del Santa Maria della Scala, chiamato appunto “il passeggio”, per secoli luogo d’incontro e crocevia dello spedale.
Il montaggio più felice si tesse, però, fra l’esterno e l’interno del complesso museale del Santa Maria: sulle pareti del Pellegrinaio, nel quattrocentesco affresco del
Vecchietta, i trovatelli che l’antico ospizio accoglieva salgono la scala che dà il nome allo spedale per essere accolti tra le braccia di una Madonna madre, mentre a pochi metri, nella piazza del Duomo, la grande
Scala (2007) in legno di Ceroli punta dritta verso l’azzurro di un cielo vuoto, scalata da tre sagomelle che tengono in mano impasti colorati. Pronte forse a gettarli sulla testa dei turisti come irriverenti pinocchi.