Gli anni ’60 sembravano promettere un diffuso buon senso. Fu quando la parola distensione cominciò a diventare familiare –e si creò un sistema d’equilibri politici almeno apparentemente stabili- che scoppiò il boom economico e nacque l’epoca dei miti. Martin Luther King e buona parte di ciò che allora era un fatto di cronaca, sono parte della documentazione raccolta da Barbara Nahmad. Una serie che -quasi fosse una fiction– porta il titolo di Yesterday now, richiamando la mitica canzone dei Beatles e concedendosi un’ammiccata furbesca al presente.
La mostra ha il carattere disteso di quegli anni, con una speranza in più. Perché ritrarre il privato, l’inedito e la dimensione nascosta di personaggi-mito (Marilyn, la Loren, il Che, Bob Kennedy, Yoko Ono) sembra essere il frutto della necessità di poter manipolare con più sicurezza qualcosa che non è più cronaca da almeno quarant’anni. La Nahmad quel periodo non lo ha vissuto, ciononostante sembra avere l’utopico desiderio di esserne testimone oculare.
La complessità e l’astrazione del discorso sta tutta qui: è una questione di punti di vista dai quali trarre una registrazione di fatti, di indizi, che non possono far altro che ricostruire la realtà. Ricordarla quindi, non conoscerla; rileggerla, non più documentarla; congedarsene con una distensione, appunto, che quegli anni non videro mai veramente. Persino a livello formale, l’artista riutilizza parzialmente alcuni aspetti stilistici delle opere che a quel passato appartennero. La Nahmad infatti ricostruisce con il bianco e nero la patina consunta dei vecchi rotocalchi, pur creandole intorno una serie di elementi da combinare in maniera inedita e questo conferisce all’operazione un risvolto carico di sviluppi.
I personaggi sono gli stessi e ancora una volta sono messi tutti sullo stesso piano; la variante sta solo in quella traccia di verità, in quel carattere da istantanea che ci mostra –per esempio- sguardi riflessivi e poco convincenti nei personaggi politici che avrebbero dovuto essere trascinatori di folle. O indugia sul make-up un po’ troppo sguaiato della Loren, sui tratti stanchi e annoiati di Marilyn, o su quelli dichiaratamente mascolini di Edit Piaf.
Dietro questa galleria di facce, che si può vedere solo se si conosce la storia, un sipario chiuso dipinto a tinte forti e sgargianti: rossi fuoco, rosa shocking, gialli spenti, celesti, grigi e neri luccicanti. Quasi a svelare il gioco una volta per tutte. Si tratta di ritagli di vecchi giornali in cui la sagoma segue il bordo esterno del personaggio ritratto: come dire, il ritratto del ritratto del ritratto, in un altro contesto. Un po’ come accadeva in quell’episodio della Pantera Rosa che, affamata raccoglieva, ritagliava e friggeva l’immagine di un pesce. Ma non senza aver prima meticolosamente tolto la coda, la testa e la lisca interna.
matilde puleo
mostra vista il 9 ottobre 2004
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