A poche settimane dalla conclusione di questo evento, Man Ray muore. E’ il 18 novembre del 1976. E oggi la Fondazione Ragghianti, nel complesso monumentale di San Micheletto, ripropone la stessa colossale esposizione: 160 opere fotografiche che ripercorrono cinquant’anni di attività, cui si aggiunge la proiezione dei quattro film – straordinario esempio di sperimentazione cinematografica – realizzati dall’artista fra il 1923 e 1929.
Salendo la ripida scalinata che – quasi trionfalmente – conduce all’ingresso della mostra, è difficile immaginare cosa ci aspetta. Un piccolo corridoio con documenti e libri esposti ci introduce alla prima sala. Che si apre inesorabile, rievocando le prime grandi opere del Man Ray che meglio conosciamo: cioè l’artista-fotografo. Pittore, prima che fotografo innovativo e sperimentatore, Man Ray riesce a inventare, modellare e dominare il linguaggio e la comunicazione dell’immagine. Anzi, è proprio grazie alla sensibilità figurativa tipica del pittore che l’artista riesce a fare della fotografia un’arte. E comincia così, fotografando ciò che gli è più familiare: prima i suoi quadri, poi quelli degli amici. Infine i suoi disegni. Ed è con alcuni di questi primi scatti, tutti datati 1917, che Man Ray decide di aprire la mostra. Che prosegue con immagini che non sono più solo trasposizione della realtà, ma invenzione e interpretazione dell’oggetto. Man Ray non utilizza come strumento la macchina fotografica, ma l’anima. Con cui legge, interpreta, inventa e ripropone. Superando anche la crisi rappresentativa lamentata dall’Avanguardia. Come nel celebre Coat Stand (L’attaccapanni, 1920): in questa immagine – paragonata allo Scolabottiglie di Marcel Duchamp – l’artista si supera, scavalcando il significato “quotidiano” attribuito all’oggetto attraverso la giustapposizione con il corpo di donna, che ha il volto statitico della sagoma e una gamba “amputata” dal gioco d’ombra. Man Ray, però, non si ferma qui. E, complice la casualità, sperimenta nuove tecniche. Come il
Gianluca Testa
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