Attorno ai cardini del viaggio e della casa ruotano le opere di
Anila Rubiku (Durazzo, 1970; vive a Milano). Ma è un viaggiare pensoso, come da fermi, che si avvita intorno alle riflessioni su ciò che lega il sé a quello che lo circonda, seppure temporaneamente, così come l’abitare si rivela piuttosto un uscire dal
dentro che si proietta all’esterno e lo modifica, lo irradia.
Accoglie il visitatore in galleria il modello di un Cessna: simbolo per l’appunto del viaggio, del movimento. Sennonché il modello è legato al soffitto da cavi che lo sostengono, mentre è il visitatore che può muoversi e girargli intorno, mentre l’idea d’instabilità è demandata ai suoni e alle immagini dei video, montati sulla fusoliera dell’aereo.
Nel secondo ambiente, un’installazione composta da cinquanta telai su cui Rubiku ha svolto la “storia” del suo viaggio in Giappone introduce un aspetto centrale dell’opera dell’artista albanese: il ricamo. Usare ago e filo per produrre arte può servire – e la memoria vola subito all’opera di
Ghada Amer – a mettere in questione il ruolo femminile nel sistema (e nella storia) dell’arte e in quello dei media. Non sembra questo però ciò che Rubiku chiede al ricamo. I suoi lavori su telai assomigliano a disegni, ma a disegni fatti di una materia più assorta, in cui le parole create col filo (con cui Rubiku si pone domande, per esempio, riguardo al diverso valore del cibo che ha sperimentato in Giappone) diventano contemporaneamente la traccia e il sostrato di una meditazione.
Sempre ricami, anche se stavolta su scampoli di pelle, sono quelli che compongono due polittici realizzati tra l’Arizona e Milano. In queste opere ricorre il leitmotiv del cactus, declinato in combinazioni e configurazioni ricorrenti e spesso associato, non solo metaforicamente, a immagini di sessualità. Il passaggio tra elementi del mondo vegetale e umano, la metamorfosi di piante in organi si trasforma in un’indagine – a volte divertita – sul rapporto tra corpo e ambiente circostante. E siamo di nuovo, inevitabilmente, al viaggio e alla casa.
Abitare il corpo, viverne le possibilità diventa una questione inseparabile da quella delle sollecitazioni provenienti dell’esterno, il cui cambiamento provoca la necessità di un aggiustamento, la ricerca di una nuova prospettiva. Ed è la casa la protagonista di un’installazione che vive un po’ in disparte in galleria. Piccole casette di carta su cui Rubiku ha ricamato gli interni – sedie, tavoli, pareti, lumi – acquistano vita grazie alla luce posta all’interno della struttura, che si anima, brilla, diventa preziosa.
Ciò che sta dentro si proietta, si ribalta all’esterno; dentro e fuori si fondono su un’unica superficie: quella fragile della carta, resa attraversabile e trasparente dalla luce. Per case in cui non ci sia niente da nascondere.