Passeggiando nei giardini e negli spazi chiusi che la splendida cornice della Rocca offre, si fatica un po’ a trovare un comune denominatore che articoli gli interventi di Moto a luogo. L’«evento plurale», che il curatore invoca nell’introduzione, andava forse vissuto fin nelle sue “estreme” conseguenze oltre che nella, un po’ scontata, autonomia degli interventi. Anche negli artisti presenti tuttavia persiste una certa approssimazione.
Tutto da buttare allora? Liliana Moro con Campana sommersa sistema una lampadina che emana luce rossa ed il rumore di una campana all’interno di un tombino. Un’idea di realtà forse un po’ romantica (peraltro già usata da Kounellis) ma comunque non priva di un suo fascino.
Più simpatica –anche se fastidiosissima per chi vi si trova nei pressi– l’installazione (Senza Titolo, 2003) di Paolo Fabiani nella torre campanaria della Rocca. Un video proietta forme colorate e collage eterogenei sull’impianto elettrico all’interno delle scale semidiroccate della torre. Dal piano superiore escono insistentemente mugolii e smorfie senza senso, talmente fastidiose da essere sopportabili solo per pochi secondi.
Massimo Barzagli –forse involontariamente– supera se stesso e la propria pittura. Il video La casa assente dilata nel tempo e nell’affettività dell’esperienza quello che i suoi quadri congelano sulla tela. La protagonista rotola, si adagia e si divincola senza soluzione di continuità sullo sfondo del tradizionale (e irreale) salotto borghese, che, in questo contesto, si presenta come più affascinante e problematico della versione dipinta. Complessivamente, ciò che scontano tutti gli interventi è forse un’eccessiva fiducia nella capacità di rappresentazione delle proprie tecniche. Infatti, a dispetto delle opere in mostra, ciò che appare distintivo e intrigante della fase artistica attuale è un totale squilibrio di interesse verso le metodologie di approccio al fare arte, piuttosto che al prodotto di tale processo. Il progressivo e poderoso processo di secolarizzazione delle nostre società opera in maniera sempre maggiore verso un’erosione dell’idea di opera come “concentrato di realtà”.
L’opera, così spodestata dal suo trono e non più credibile semplicemente nella sua autopromozione, per restare significativa è ormai costretta a dilatarsi ed accogliere istanze esterne. Il molteplice deve essere attraversato, vissuto e fatto proprio, non citato. Non un moto a luogo, bensì un moto da luogo.
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