Basterebbe
questo, solo il titolo, che è invocazione, espressione di stupore ed estrema
provocazione. Una bomba. Il teschio di diamanti di Damien Hirst (Bristol, 1965; vive a Devon e Londra) deflagra nella saletta di Palazzo Vecchio e lascia
attoniti, sbigottiti.
È
forse una delle pochissime opere realizzate negli ultimi decenni a potersi
connotare come un “capolavoro”:
purissimi, non per l’ancor più prezioso diamante rosa centrale detto “Stella
del Teschio”, piantato quasi come un terzo occhio di orientale memoria. È
l’insieme di simbolo e materia, di aura ormai leggendaria e di custodia gelosa
che ne fanno un mito dell’oggi.
Del
resto Hirst è solito a stupire tramite i suoi lavori, molti dei quali già
celebri: lo squalo (1991), Pharmacy,
la serie Natural History con gli
animali sezionati immersi entro bacheche piene di formaldeide. L’artista non è
inoltre nuovo al confronto con la caducità della vita biologica, con la
fragilità umana e la malattia, oltre che con l’anatomia dei corpi (Hymn, 2000).
Un
uso spregiudicato del dolore, della perdita, che nel teschio esposto a Firenze
viene sublimato in un sistema di contrasti e rimandi storici: ciò che più
rappresenta la fragilità umana, il contenitore di quanto vi è di più profondo
nella persona, è svuotato, “riversato” in platino e trasfigurato mediante la
pietra più dura e resistente che esista.
Una
mutazione alchemica che però ha innegabili legami con la storia dell’arte e
della religiosità di tutti i tempi: dalle reliquie medievali contenute in
ricche teche tempestate di pietre preziose ai trionfi della morte di tante
chiese del Nord, ai dipinti fiamminghi raffiguranti veri e propri memento mori, i teschi sono da sempre
presenti nell’immaginario collettivo. Hirst ne ha recuperato il senso, il
valore della riflessione sulla fine della vita e, certo consapevolmente,
attraverso l’opera egli dichiara con forza la propria immortalità. Al di là del
tempo e dello spazio.
E ben
lo comunica Francesco Bonami, curatore dell’esposizione, attraverso il saggio
di presentazione: stralcio del diario di Nigar Rafibelyli, immaginario
Soprintendente dei tesori azerbaigiani che, nel 3040, si ritroverà a dover
recuperare For the Love of God tra
catastrofi ecologiche e zone contaminate da radiazioni nucleari. “Solo adesso capisco quanto sia limitato il
concetto di bellezza”, scrive Bonami.
“Quel teschio era il nostro eroe, ci
ha salvato non solo dalla disperazione personale ma anche da quella collettiva:
eravamo invischiati in un incubo e ci ha liberato per portarci in un sogno”.
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Hirst a Venezia
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mostra visitata il 4 dicembre
2010
dal 25 novembre 2010 al primo maggio
2011
Damien Hirst – For the Love of God
a cura di Francesco Bonami
Palazzo Vecchio
Piazza della Signoria, 1 – 50122 Firenze
Orario: da venerdì a mercoledì ore
9-24; giovedì ore 9-14
Ingresso: intero € 10; ridotto € 8
Catalogo Other Criteria
Info: tel. +39 055055; www.hirst.it
[exibart]
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dai ma veramente c'è gente che paga 10 euro per vedere un teschio in una teca? assurdo. andate nella gioielleria dietro l'angolo che fate prima.
poi a vederlo di profilo è pure sdentato poveretto, non poteva fargli i denti d'oro già che c'era?
Ma la vogliamo finire di promuovere questa tipologia di falsa cultura fatta di colpi di teatro la cui sostanza è agli antipodi dai veri messaggi innovativi?
La vogliamo finire con queste strombazzate mediatiche gridanti al miracolo, organizzate per spingere un pubblico di labili e/o di curiosi a pagare un biglietto per vedere un manufatto da baraccone o tutt'al più da vetrina di gioielli?
(E se invece delle migliaa di brillanti il 'geniale' artista avesse spiaccicato sullo pseudo teschio invece dei diamanti migliaia di bachini di sego, tra l'altro assai più pertinenti alla natura evocativa della morte, sarebbe stato meno 'geniale'? E la gente, sarebbe egualmente corsa?)
Del resto, la superficialità degli attuali promotori di cultura non permette altro. Inutile auspicarsi la scoperta di giovani talenti, inutile asdpettarsi un argomento valido riguardo la storia dell'arte. La loro mente luccica, ma non per pensiero interiore: è solo un riflesso di futilità oziose, fini a se stesse che con l'arte, avanguardia compresa, non han nulla che spartire.
Ma forse (ammettendolo amaramente) eventi come questi altro non riflettono che la nostra attualità.
Se è vero com'è vero che l'arte rispecchia il segno del proprio tempo, allora questo nostro oscuro tempo di decadenza sta al fenomeno della gloria mediatica teschio di Hirst come nel ventennio lo era l'icona mediatica della scultura del Duce a Profilo continuo di Renato Bertelli. Ma almeno quello scaturiva da una elaborazione plastica futurista, autonomamente sviluppata nell'apparente senso rotatorio di una forma nello spazio. Ma si tratta di vere genialità d'altri temnpi......