In Sicilia, l’occhio non è discreto. Nessuno passa inosservato, nessuno può osservare inosservato. Lo sguardo -di un passante, di un estraneo, di un fotografo- è un’invasione poiché viola una sacralità. Sacralità di un popolo che sopravvive a stento, annidato nel ventre oppresso di Palermo o nelle strade diroccate del giallo entroterra, inchiodato nella resistenza al nulla incombente.
Eppure il siciliano, anche se sospetta, non ama nascondersi, preferisce raccontare le sue storie con naturalezza, avvolte in un misto di orgogliosa e misteriosa bellezza. Sorrisi, volti scontrosi, braccia conserte, sguardi di sofferenza: nelle fotografie di
Enzo Sellerio (Palermo, 1924) c’è un’enciclopedia della distanza tra uomini, afflitti dalla tragicomica realtà, e lo sguardo della fotografia, partecipe ma separato. Sono gli anni ’50, l’Italia della ricostruzione è in bilico fra la propaganda televisiva e la miseria del Mezzogiorno, fra modernità spavalda e silenziosa resistenza dei mortali. L’eco della cultura neorealista, gramsciana, è vivido nella formazione di Sellerio: la tensione verso il mondo popolare, il ritratto di un’umanità lontana e offesa. Sono impegno intellettuale e partecipazione emotiva a spingere verso miseria e sopportazione, non l’idealizzazione ingenua dell’incontro del borghese con un immaginario folkloristico in cui consumare la propria bohème. Cosa che del resto vale per tanti intellettuali e artisti palermitani -da
Guttuso a
Emma Dante, da
Rosa Balistreri a
Ciprì e Maresco– che faranno del popolo siciliano una fonte inesauribile d’ispirazione, nella sua problematicità e poeticità, nella sua rabbiosa potenza dialettale.
Le fotografie di Sellerio hanno il sapore dell’
Inchiesta a Palermo di Danilo Dolci, attivista e intellettuale che combatteva la mafia insieme ai braccianti. C’è l’amara constatazione della povertà, dell’arretratezza, accanto all’epica di un popolo gioioso, intriso di disarmante bellezza; c’è il racconto che esce dagli occhi e dalle voci di uomini, bambini, strade; c’è l’ironia delle situazioni, eterne o effimere, di una ritualità che trascorre senza tempo.
Cogliere un frammento di realtà, per Sellerio vuol dire rivelare un’interiorità attraverso un gesto, comprendere un mondo attraverso un istante. Una donna si affaccia a un balcone e la carica di seduzione si scioglie in un gioco di sguardi. Un uomo si avvia scanzonato con il suo asino verso il porto, dov’è ancorata la portaerei
Independence in occasione delle elezioni del 1960. L’incontro fra arcaico e storia, nella forma fotografica, è quasi un calvario, il compimento di un cammino segnato.
L’orizzonte implacabile della modernità, vissuto con l’umiltà rassegnata dell’uomo comune. Il racconto in Sellerio non è narrativo ma poetico, sfiora l’agilità del verso o della battuta, la forza allusiva della saggezza.
Dopo la rivelazione delle strade siciliane, la carriera di Sellerio, che a metà degli anni ‘60 conosce uno straordinario successo, lo conduce all’estero per conto di agenzie fotografiche come Vogue e Fortune. Ritratti di Arthur Miller,
Christo, Saul Steinberg, a testimonianza di un rapporto -e di una capacità di interpretarne i volti e le personalità- con esponenti di primo piano della cultura internazionale e italiana (Sordi, Gassman e lo splendido scatto a Ignazio Buttitta). Un cosmopolitismo palermitano che misura la grandezza del mondo con il passo di chi non vuole abbandonare la propria terra. Cosmopolitismo che è anche quello di Sciascia, amico fraterno di Sellerio, autore paradigmatico nel dimostrare quanto stimoli e divagazioni culturali passino sempre per la scatola della sicilianità. A riprova del legame con Palermo, arriva nel ‘69 la fondazione, insieme alla moglie, della casa editrice, alla quale Sciascia collabora sin dagli inizi.
La mostra arriva a Firenze dopo Palermo e Siracusa, e come ultima tappa prevede lo spazio Metropol di Milano. Il Museo Alinari, inaugurato nel 2006, ospita così un’altra esposizione di alto livello.
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La storia di Sellerio editore claudio gulli
mostra visitata il 12 settembre 2007