Il volume cattura la luce. È una caratteristica sostanziale dell’arazzo. Non si vede filo di ordito, che sparisce in quello della trama, ma ne determina il volume.
Come un’orchestra esegue e interpreta capolavori musicali, così i licciai traducono in un mezzo diverso (lana, seta, lino) le opere di artisti famosi e le traspongono in arazzi, perché gli stessi divengano nuove opere d’arte.
Sono ventuno gli arazzi esposti alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti. Spettacolari, grandiosi, alcuni addirittura imponenti. Indimenticabile quello monumentale di
Miró nell’atrio di una delle torri gemelle e con esse ridotto in cenere. In questa mostra, Miró è però presente con
Composition n.1 ou Femme au miroir (1967, manifattura Gobelins).
La G di Gobelins è il simbolo della manifattura parigina leader negli arazzi insieme all’altra, famosissima, di Beauvais. Entrambe perpetuano una tradizione che in Francia ancora vive e trasmette il sapere ricevuto in eredità da Pierre Dupont. In Italia la tradizione dell’arazzo si è persa dai tempi dei Lorena, ma in questa mostra riecheggia “
un inno alla creatività odierna nel solco di una tradizione antica e prestigiosa” (Cristina Acidini).
Due diverse mostre contemporaneamente offrono a Firenze l’opportunità di apprezzare capolavori di genere, come da tempo non si vedevano: gli arazzi di
Artemisia progettati per Caterina e tessuti per Maria de’ Medici a Palazzo Strozzi, nella mostra
Donne e Potere, e il nutrito nucleo di
Arazzi d’autore a Palazzo Pitti. Qui si alternano pezzi firmati da
Matisse,
Le Corbusier,
Picasso, nonché capolavori più recenti come
Ça sent bon (1987) di
Gérard Schlosser, della manifattura Beauvais. 140 colori in oltre due metri e mezzo per lato.
L’arazzo è strabiliante per complessità e iperrealismo. Uno dei simboli degli anni ’70, la Due cavalli, campeggia dietro il busto in primo piano, simpaticamente paffuto, di una giovane donna distesa all’ombra di un albero.
Intensa, ideale e collaborativa, la dialettica fra artista, licciai e tintori si esprime nei bianchi e nei grigi di
Sans titre di
Philippe Cognée (2003), sempre dalla manifattura Beauvais, dove il volume dell’intreccio fra lana, seta e lino (basso liccio) esalta la luce e le ombre dell’originale olio su carta fotografica.
L’idea dell’artista si confronta con la tecnica dell’arazzo, che spesso non conosce, ed è lì che inizia il dialogo e il confronto. Si cercano le lane, i colori adatti e il licciaio imposta il “disegno” con i fili. A una formazione di base del tutto scientifica, i licciai accompagnano un approccio differente: seguono infatti “
un rigore scientifico nel lavoro, ma sono artisti nell’anima, nello spirito, nella passione” (Sylvie Heurtaux). E lo si vede bene in questa mostra, che vale veramente la pena visitare.