Nel centenario della nascita del solitario artista veneziano, il Mart gli dedica una breve retrospettiva di sessanta composizioni, realizzate in piccole e medie dimensioni. Opere che ripercorrono
in nuce la vita pittorica di
Luigi Tito (Venezia, 1907-1991). Figlio di uno dei maggiori pittori veneziani di fine Ottocento, è introdotto dal padre Ettore alla dimensione dell’osservazione e della riproduzione artistica, attività che sin da prima della guerra lo vede impegnato nel rifacimento della volta affrescata da
Tiepolo nella Chiesa degli Scalzi. La svolta avviene nel 1932: terminato l’incarico da restauratore, intraprende il proprio percorso artistico, scivolando al di là delle mire paterne. Entra così in contatto con le avanguardie del periodo, conosce
Vedova e
Martini, mantenendo però sempre l’impianto pittorico ottocentesco. Nonostante ciò, nel frattempo modula il proprio tratto stilistico sull’impronta di
Rembrandt. Invitato alle biennali del 1935, del ’38 e del ’40, allo scoppiare della Seconda guerra mondiale si arruola nelle file partigiane e si allontana quasi definitivamente da quel movimento artistico che stava rinnovando la pittura in Italia.
Chiamato in cattedra nel ‘62 dall’Accademia di Venezia, per vent’anni tiene in parallelo l’attività pittorica e l’insegnamento. Solamente a metà degli anni ‘60, quasi in silenzio, tornano a essere esposti al pubblico disegni, dipinti e tempere di un maestro schivo, che continua a dipingere solo per la pittura.
La selezione di tele, ritratti e bozzetti esposta al Mart si trova in una piccola sala del secondo piano. Il pregio di quest’antro seminascosto è la conformazione dello spazio, raccolto e perfettamente illuminato, adatto a restituire la pastosità vibratile delle pennellate di Tito. I ritratti esposti fanno trapelare una brutalità che gonfia la verosimiglianza distorta dei dettagli e delle pose, per mettere a nudo un’abilità tecnica che fa diretto riferimento al panorama pittorico ottocentesco. Lo sguardo dei soggetti, dagli autoritratti alle nature morte, è un occhio che arriva diretto a chi guarda, sfidando il potere agente dello spettatore attraverso il taglio. Dunque, dalla nobildonna al religioso con la carica più alta, l’atto pittorico scende sui volti e li appiattisce, scarnificandoli, come negli ovali della Contessa Lia Soranzo, di cui realizzò numerose versioni tra il 1980 e il 1990, o nel
Vescovo Giallo del 1982. Di natura opposta si svelano le scene domestiche, come nel ritratto
Lucia che legge (1966) e in
Ritratto del figlio Pietro Giuseppe, dove il pennello rilascia colori e contorni che stemperano il tratto in un delicato, incredibile, sentire estetico.
“
Dicono che vado controcorrente. Non è vero. Con gran fatica ho eliminato in me la mentalità anti. Faccio quello che so fare. Non ho mai dipinto un quadro astratto non perché non mi piacciano i quadri astratti (non c’è arte senza astrazione), ma perché seguo la corrente a me congeniale”.