Certamente una delle mostre più riuscite fra quelle griffate Mart, con al centro un tema inedito, almeno in Italia, quanto stimolante: la musica jazz e le sue innumerevoli influenze sulla cultura del Novecento. Un tema presentato attraverso uno sguardo assolutamente
borderline, capace di abbracciare pittura e musica, cinema e grafica, comics e fotografia. Un percorso che, partendo dalle radici più profonde della cultura musicale afro-americana, analizza nel dettaglio questo fenomeno musicale privo di geografie, capace di ritmare la vita nei ghetti d’America come nelle capitali d’Europa, allora come oggi.
Il percorso è scandito in dieci sezioni cronologiche. Ad accogliere il visitatore è un ambiente introduttivo dedicato ai precursori del jazz, ove si trovano curiosi spartiti ottocenteschi di indiavolati suonatori di banjo, affiancati da qualche oggetto dal gusto decisamente etnografico, spesso al limite dell’eccentrico. Ecco subito comparire però un gruppo di opere dei primi artisti che subirono in qualche modo il fascino dei nuovi ritmi:
Stuart Davis,
van Doesburg,
Janco,
Picabia,
Man Ray e
Picasso.
La pittura è in qualche modo il collante
tradizionalista della mostra, quello, insomma, che non farà certo mancare un buon numero di visitatori. E
allora, srotolato il tappetino rosso, voilà un estratto del ricco menu:
Thayat,
Dix,
Grosz,
Leger,
Kupka,
Matisse,
Johnson,
Dubuffet,
Pollock,
Rotella,
Tapies,
Novelli,
Thompson fino a
Oldenburg,
Basquiat,
Hammons e
Haring.
Il cuore pulsante del percorso, quello che forse, più dei dipinti, riesce ad accarezzare l’anima fibrillante del jazz è però la sezione grafico-documentaria. Dai libri d’epoca alle locandine dei concerti, dalle copertine di spartiti alle cover dei dischi, la mostra è un susseguirsi di infinite sorprese che occorre assaporare a piccoli sorsi, per non inebriarsi. Di tale mare magnum ricordiamo perlomeno le illustrazioni libresche di
Aaron Douglas o quelle pubblicitarie per i vini
Nicolas di
Paul Iribe, o le geometriche copertine di dischi realizzate da
Albers, piuttosto che quelle dal tratto figurativo dell’allora imberbe
Andy Warhol.
La grafica in piccolo formato è inframmezzata da quella in gran formato delle
affiche, come quella di
Mario Puppo per la band di Jack Hylton o quella di
Michel Gyarmathy dedicata agli esotici spettacoli della cantante e ballerina Josephine Baker, vera icona degli anni ‘20.
Chapeau infine per la scelta di ospitare nel percorso numerosi video, da capolavori come
Swinger Time (1936) di George Stevens a stravaganti
cartoon, come l’intramontabile
Betty Boop di
Dave Fleischer, accompagnata dai ritmi di Louis Armstrong, o un’elettrizzante versione jazz de
I Tre Porcellini realizzata nel 1957 da Isadore Freleng e musicata da Shorty Rogers.