È in scena un progetto di crisi: l’incontinenza del pathos entusiastico che, toccando l’apice espressivo, volge al distruttivo e sfocia in una dimensione di assenza e avidità espressiva. Attraverso il lavoro di cinque artisti vengono portati in superficie vuoti e disagi post-entusiasmo: ideologie sepolte, paesaggi desolati, cali di tensione, lacune di energia, dittature evacuate. La sindrome emotiva imputata dal curatore, dopo aver raggiunto l’intensità estrema, collassa in una landa di apatia morale, indolenza, noia, paura.
Secondo le esplorazioni contemporanee di Greenson e Lyotard, l’entusiasmo è anche un’emozione positiva, generosa, aperta agli altri, spesso utile alla sopravvivenza. Qui no. Qui l’entusiasmo, sulla scia della concezione filosofica illuminista attualizzata in mostra, è visto come un sentimento disturbante, premonitore di fanatismo, assolutismo e determinazione volta al male. “
We may prepare ourselves with some antidote against enthusiasm”, scriveva Shaftesbury nella
Lettera sull’entusiasmo datata 1708.
L’antidoto a Bolzano va a ruba ed è preso alla lettera. Il sentimento elaborato dagli artisti, indifferente a ogni evento scatenante, rinuncia all’azione propositiva, anche idealmente ragionevole e condivisa.
Project for a revolution di
Johanna Billing re-interpreta e sovverte la sequenza iniziale di
Zabriskie Point per filmare il progetto di una fallita contestazione: uomini e donne in una stanza che aspettano qualcosa. Ma il tempo passa e non succede niente. Se secondo Voltaire l’entusiasta, come un ubriaco, vede doppio, qui l’artista chiede ai pigri rivoluzionari di spegnere la luce.
A Kiev, intanto, un’anziana donna si agita sul posto, frapponendosi tra il luogo, la telecamera e la cortese intenzione dell’artista.
Tim Hyde cerca di filmare la sede originaria del Kgb ucraino, ora massificato da un fast-food McDonald’s, mentre una tenace e silenziosa signora, come una
honey trap ormai decaduta, cerca di proteggere lo spazio, impedendo la realizzazione del video. Si travestono i luoghi del controllo sociale sovietico, ma le intenzioni riemergono attraverso chi non può cancellarne il retaggio.
Fa appello alla ragione il
Senza titolo a parete di
Roberto Ago. Un dittico, due scene simboliche atte a rappresentare il contrasto fra pensiero razionale e furore aggressivo: il pensatore critico Norberto Bobbio da una parte, due aquile dall’altra. La forza che sostiene l’opera è determinata da un ossimoro visivo: due rappresentazioni opposte ed estranee in un equilibrio solo visivo.
Rovine e detriti, immagini silenziose, reperti celebrativi dei cosmonauti dimenticati, impacchettamenti retroattivi e nessun essere umano nelle fotografie di
Olga Chernysheva. Altrettanto caute ma animate da esemplari intenzioni documentarie le successioni d’immagini riferite al terrorismo della Raf nell’opera tripartita di
Andreas Bunte. In entrambe le opere, gli artisti si sottraggono alla mera riesumazione storica e politica, per solleticare un senso di disagio, di fallimento, “
un entusiasmo ideologico impietosamente sopito dalla polvere della storia”.
In questo modo, i cinque interventi fanno da contrafforte a un piedistallo desolato. Non resta che chiedere alla polvere, “
a little slice out of life”, come John Fante.