È dalla seconda metà degli anni ‘90 che l’arte cinese è entrata nel gotha del contemporaneo, ma fino al decennio precedente la produzione del Paese asiatico era sconosciuta o nota solo per piccoli ritagli, neppure molto significativi. La chiusura culturale del Paese era tale da precludere i rapporti con l’Occidente e, tra le prime personalità a emergere, ci furono gli artisti che avevano abbandonato la Muraglia per vivere altrove, come
Cai Guo-Quiang. Tra i più noti esuli spicca
Chen Zhen (Shangai, 1955 – Parigi, 2000), di cui il Mart ha accolto la significativa retrospettiva presentata l’anno scorso alla Kunsthalle di Vienna, con l’aggiunta di una piccola sezione di progetti incompiuti.
Originalmente pittore, nel corso della sua carriera Chen Zhen ha sviluppato un approccio che ha saputo coniugare la tradizione del proprio Paese con le più progredite istanze multiculturaliste che sono andate delineandosi a partire dagli anni ‘80. La mostra si apre proprio all’insegna della combinazione di realtà differenti e distanti, come capita in
Beyond the Vulnerability, una scultura-installazione al cui centro sono collocate casette realizzate con candele colorate prodotte dai bambini delle favelas brasiliane, e prosegue con
The voice of Migrators, un otre avvolto di indumenti da cui risuonano, in differenti lingue, le voci di persone da tutto il mondo.
La riflessione sull’evoluzione del mondo, sulla crescita delle città sembra sollecitare Zhen, che negli stessi anni delinea un poetica sensibile alle istanze politico-sociali, come capita nella
Social Investigation su Shangai (in parte incompiuto), che documenta lo sviluppo abnorme della megalopoli che sembra aver cancellato la propria autenticità, la propria storia. Degli stessi anni è la porta di ferro -ironicamente sottotitolata
Hommage à Duchamp– che indica un luogo di passaggio e demarca una frontiera, ma che non spalanca l’uscio né alla terra né al cielo.
La stessa sala ospita
Exciting Delivery, una suggestiva installazione realizzata con una bicicletta coperta da un bozzolo di copertoni intrecciati, che testimonia i continui riferimenti alla tradizione produttiva cinese a partire dalla rivoluzione maoista. Molte delle opere danno infatti l’idea di manufatti di artigianato orientale, frutto di abilità e tradizioni millenarie: come si vede anche in
Bibliothèque Musicale, è continuo il rimando alla memoria di un Paese che, nell’ansia della Rivoluzione Culturale, sembra quasi scordare la tradizione che porta in seno, cui l’artista sembra contrapporre “
l’affermazione dell’identità cinese modulata da quello del migrante”, in un villaggio che ormai è davvero globale.
Toccante la sala dedicata agli improbabili letti di
Sleeping Tao, realizzati in vetro e oggetti trovati, e la
Purification Room, in cui viene costruita una stanza ricoperta da polvere, un monito alla vacuità, ma anche testimonianza che Chen Zhen, come scrive Jeffrey Deitch nel catalogo della mostra al P.S.1 del 2003, “
non lo si incontra ma lo si vive”.
È del tutto inutile l’appendice degli
Unrealized, una decina tra disegni e progetti che non aggiungono nulla alla mostra.
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ma che strano che dopo tutti questi anni la galleria Continua abbia ancora così tante opere in magazzino
La parte delle opere incompiute è più di tutto un regalo del Mart alla Galleria Continua!