In un suggestivo territorio alle pendici delle Alpi, le opere di
Marcovinicio (Premosello Chiovenda, Verbania, 1955; vive a Domodossola) si fanno interpreti di un paesaggio austero ma non privo di accenti lirici e spirituali.
La Galleria Civica Segantini continua così, senza mai ripetersi, il suo approfondimento sull’arte fedele al quadro, che trova nella descrizione della natura una modalità privilegiata di espressione. Dopo la personale di
Serse, gli spazi di Palazzo Panni ospitano lavori di una realtà severa, dove la mano di Marcovinicio, per continue semplificazioni, sembra voler giungere al nocciolo delle cose, a una verità tacita e umile.
Le trentatre opere esposte, tutte successive al 2007, dipinte con tecnica tradizionale e colori terrosi, presentano un’estrema coerenza formale e intellettuale, declinata però in vari soggetti: il paesaggio, la natura morta, il ritratto. I riferimenti dell’artista, sottolineati da Giovanna Nicoletti in catalogo, riguardano la pittura del Trecento per la sintesi delle forme, e
Giovanni Segantini per il rapporto con la montagna, luogo di verità e riflessione esistenziale.
Il primo nome che comunque si affaccia alla mente dello spettatore è quello di
Henri Rousseau, ma sarebbe forse riduttivo interpretare l’intera opera di Marcovinicio come divagazione favolistica dalla realtà o semplice regressione. Qui la sintassi primitivo-infantile è funzionale a una logica che evita i clamori del superfluo, per mirare direttamente al necessario e alla solida concretezza della verità naturale. Ciò che emerge dalle pennellate, ora piatte, ora vibranti di materia, è un forte legame etico con il mestiere e con il rigore del lavoro artigianale.
Lo si riconosce nei soggetti meta-pittorici, in cui l’artista viene tratteggiato in proporzioni surreali mentre, seduto su un’abitazione, dipinge a sua volta un paesaggio. Oppure negli splendidi notturni, dove la ricerca si fa metaforica e l’uomo, con l’unica compagnia di un cane e di una lanterna, vaga tra la neve e le cime in cerca del suo destino. La montagna rimane il leitmotiv, metafora di un rapporto fra umanità e mondo naturale che può essere ancora equilibrato, magico e misterioso.
Il tacito racconto inaspettatamente non si ferma al quadro ma continua anche nelle scelte dell’artista, in netta opposizione al mercato, alla promozione e alla velocità del mondo odierno. La reticenza a divulgare i propri dipinti attraverso la tecnologia, la volontà di intitolare tutte le opere esposte
Silenziosa disciplina e la scelta di pubblicare riproduzioni solo in bianco e nero ribadiscono la sua integrità, l’assenza di compromessi, il non voler dire troppo.
Attraverso la sobrietà del contadino e con la forza di chi parla solo quando ha qualcosa di necessario da dire, Marcovinicio giunge a una comunicazione silente che riesce, nel paradosso, a esser diretta, autentica e addirittura violenta.
D’altronde, come asserisce Davide Brullo nel testo a corredo del catalogo, “
cosa c’è di più violento di un bambino che ti chiede: ‘mi vuoi bene?’”.