Gioca sapientemente con l’immagine prospettica, incastra lo spettatore, mentre gli fa credere di poter vedere liberamente. In realtà,
Igor Eškinja (Fiume, 1975; vive a Venezia e Fiume) premedita i modi del sistema visivo e, implicando riflessi celebrali in-condizionati, lo conduce verso inconsuete percezioni o, meglio, forzate visioni.
“
Sono interessato a creare una situazione nella quale lo spettatore trova il suo equilibrio al limite dello spazio, creando una relazione mentale fra se stesso e lo spazio in cui si trova”, afferma l’artista croato, mentre scompone forme semplici in uno spazio sfinito, superficie o contenitore che sia. Come un illusionista, manipola oltre i limiti retinici la reazione stereoscopica dello spettatore. Esplora il potere dell’immaginazione e la gioia di evocare solo ciò che vuole far vedere. Innescando l’ambiguità della risposta visiva.
Si assolvono i disorientamenti, i capogiri da mondi virtuali, le seduzioni visive reali o apparenti. Sono i segni di labilità fra vero e presunto, ripresi ampiamente nelle arti performative, nella musica e nel cinema: da
Gabriele Salvatores in
Nirvana, da
Peter Weir in
The Truman show,
dai fratelli
Wachowsky in
Matrix e nella frase-simbolo “
follow the white rabbit… Welcome to the Real World”.
In mostra, lo spazio è set di se stesso, senza ipertrofie spettacolari. È un
trompe l’oeil riversato nel contenitore espositivo, semplice, senza effetti posticci. Pareti bianche, un pilastro e adesivo vinilico: una questione di macchie e fraintendimenti. Dall’ingresso è visibile una
tache nera, dal contorno irregolare, sulla superficie muraria; dentro lo scena espositiva cambia tutto e la forma si disgrega. Si svela a questo punto il campo d’indagine, diviso fra la restituzione prospettica ambientale di elementi bidimensionali misurabili, lo studio compositivo della frammentazione visiva dell’oggetto, la scelta operata dall’artista in merito alla posizione dell’osservatore in tempi sfalsati. Prima, infatti, chi entra vede l’opera dal punto di vista privilegiato e ricostruisce l’immagine predeterminata. Dopo, quando la macchia scompare, capisce il bluff, diventa complice e partecipa all’armonia del vuoto e della meraviglia.
Ribadiscono l’equivoco percettivo i lavori grafici a parete. Sono ritratti
time-slice di un’intera classe di studenti dell’Accademia di Fiume, senz’alcuna ambizione artistica. (Quasi) rappresentati con tratti essenziali, chiazze di colore e collage agli estremi del foglio bianco. La prima occhiata giova dell’esperienza e ricostruisce lo scompenso grafico, afferrando l’intenzione generale dell’artista.
Si entra così in uno spazio di empatia percettiva, una terra di mezzo piena di interpretazioni e possibilità, che non aspira a un’univoca rappresentazione o a un epilogo patinato. Aggrappati piuttosto agli appigli terreni, si rincorre il compromesso col dubbio. “
Oh man! Wonder if he’ll ever know. He’s in the best selling show. Is there life on Mars?”. Lo domanda David Bowie.