Può l’arte fornire soluzioni a problematiche sociali scottanti come la convivenza tra popolazioni italiane e popolazioni che italiane sono di fatto ma non nello spirito? O assottigliare l’eterna scissione tra est e ovest del mondo?
Chi capiterà in Trentino Alto Adige quest’estate non avrà dubbi: la risposta non può che essere affermativa.
Manifesta non ha mai avuto ripensamenti in proposito: dalla sua prima edizione nel ‘96 il suo obiettivo è sempre stato quello di intervenire in situazioni delicate di “borderline” all’interno o ai confini dell’Europa. Ma non pare essere l’unica istituzione a dare una risposta affermativa a questo interrogativo. Anche il colosso del Mart, in occasione dell’evento, prende posizione nella stessa direzione: “
Tempo di solidarietà è questo, tra artisti e corpo sociale, tempo anche di emergenze che toccano la vita dell’intero pianeta. L’arte non serve a risolvere problemi ma a produrre domande, moti di coscienza sui molti nodi del nostro pianeta”, recita la significativa introduzione in catalogo di Achille Bonito Oliva.
Cinquanta artisti di ultima generazione provenienti da tutto il mondo riuniti da un nutrito team curatoriale internazionale (oltre a Bonito Oliva, Lorenzo Benedetti, Iara Boubnova, Cecilia Casorati, Hu Fang, Christiane Rekade, Julia Trolp), per dare valenza estetica alla riconciliazione tra Oriente e Occidente. La loro stessa multicolore provenienza (Italia, Cina, Russia, Germania) si allinea con la tensione verso l’assottigliamento del divario tra culture, dello sfumare dei confini tra le nazioni in vista di un operato comune.
Cuore pulsante dell’esposizione il film di
Joseph Beuys,
Eurasienstab (girato nel 1968 al Wide White Space di Anversa), in cui l’artista-demiurgo ricompone il divario tra Oriente e Occidente, metafora della riconciliazione tra mente e corpo, tra storia e spiritualità, attraverso elementi simbolici e mistici. Opera che diventa il punto di riferimento per una generazione di artisti che prende le distanze dalle posizioni edonistiche autoreferenziali duchampiane per abbracciare un tipo di creazione più attenta al contesto sociale di riferimento, basata sulla memoria collettiva e socialmente impegnata. Tipica del mood anni ’60-’70, di cui Beuys e
Alighiero Boetti (presente in mostra con una
Mappa del 1989) si fanno degni portavoce.
Ampia la presenza di giovani rappresentanti della scena italiana:
Christian Frosi,
Riccardo Previdi,
Stefano Cagol,
Alessandro Nassiri Tabibzadeh. Numerose le installazioni site-specific, tra cui spiccano
No Enemy di
Silvia Giambrone,
Local & Craft di
Carola Spadoni e
The Water was boiling at 34° 21’ 29’’ S, 18° 28’ 19’’ East di
Beatrice Catanzaro.
Se i punti di riferimento storici sono presenza costante che aleggia nelle sale, la distanza nelle due modalità di approccio alla stessa categoria di valori è altrettanto chiaramente percepibile. L’enorme varietà di mezzi utilizzati in mostra parla ancora una volta dei confini e del loro annullamento: come se alla dissolvenza dei limiti geografici gli artisti rispondessero con una similare dissolvenza tra le tecniche, muovendosi tra video, installazioni, scultura e performance, dimostrando come l’arte oggi abbia trovato la propria forma di stabilità nella non- stabilità.
Il confine e il suo superamento sembrano insomma essere il fulcro di una riflessione quanto mai attuale oggi: nella dimensione universale del confine tra Oriente e Occidente al Mart, nella dimensione specifica e peculiare del confine tra Nord e Sud, tra Europa mediterranea e Mitteleuropa nelle quattro sedi di
Manifesta 7.
E le
Barricate 2 (2008) di
Fernando Sanchez Castillo, in cui gli elementi che compongono lo sbarramento celano un’identità completamente diversa da quella che appare, diventano un monito significativo: i confini più insormontabili oggi non sono quelli nettamente identificabili tra nazioni o tecniche artistiche, ma quelli che si situano in una dimensione molto più velata e impercettibile.
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che mostra vecchia... e per di più subappaltata