Stefano Cagol (Trento, 1969) torna con questo progetto a trattare la tematica politica. Lo fa dopo la “bandiera americana”, oggetto che nei suoi video diviene allo stesso tempo un rassicurante e morbido fiore che sboccia e un minaccioso e austero stendardo bellico: stelle e strisce su uno sfondo azzurro tanto terso da sembrare astratto. Ma lo fa anche, come ci tiene a ricordare, dopo un lavoro –allora non molto “di moda”– sulle Brigate Rosse, presentato nel ’97 alla Triennale di Milano per Generazione Media.
L’occasione è offerta innanzitutto dalla location: un forte austro-ungarico ottocentesco sulle Alpi Trentine a 1800 metri d’altitudine, utilizzato durante la Prima Guerra Mondiale. Inevitabile quindi affrontare la tematica del conflitto. Ma l’approccio scelto da Cagol è estremamente ampio, mosso sul piano di slittamenti spaziali e temporali. Dalla Grande Guerra infatti l’artista si è spostato sull’atomica -spinto dalla sua partecipazione ad una collettiva a New York sul tema- ed è arrivato fino al Giappone contemporaneo, dove Cagol ha realizzato recentemente un progetto e che rappresenta l’unica nazione colpita dalla bomba.
Il progetto espositivo invade tutti gli spazi della singolarissima struttura architettonica, un forte spogliato dell’armatura esterna fino a renderlo piuttosto simile ad un castello medievale, con alte volte a botte e camminamenti. Un grande agglomerato in rete metallica e catene luminose occupa la grande apertura centrale che alloggiava i cannoni.
E’ intricato, come una maceria d’esplosione, ma allo stesso tempo cellulare, con i moduli esagonali della rete, e in un certo senso urbano, con le linee di luce come strade cittadine. All’esterno una decina di bianchissime e lucide pantere sono appostate, altere e perplesse, mentre una è all’interno dell’intrico, l’unica rossa, l’unica diversa.
Confusa come la contemporaneità, ma mai tesa al panico e all’ossessione, è la video installazione Atomicwerk, chiusa dietro le sbarre di una cella. Il titolo incrocia inglese e tedesco e nel video una ragazzina del Giappone di oggi è impegnata in una danza priva di senso, mentre sullo sfondo si sovrappongono continue immagini di esplosioni atomiche, affievolite dalla dissolvenza, spinte quasi ad un’universale astrazione. La stessa fusione ritorna anche nell’audio, una techno del Giappone giovanile è mixata con il suono sordo di esplosioni, in un loop che si risolve nel candore assoluto finale.
Questa mitologia contemporanea creata attraverso un melting pot è fissata poi su marmo, come un’epigrafe dei giorni nostri. L’artista ha infatti stampato i frame del video su piccole lastre di marmo, disposte orizzontalmente sul pavimento -anch’esso in fredda pietra– del forte.
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