Strutture in legno su piedistalli si aprono per porgere all’altezza dello sguardo i monitor posizionati all’interno. Sono una sorta di teatrini che introducono lo spettatore dentro l’immagine, dentro l’esperienza privata di
Joan Jonas (New York, 1936). I video raccontano un’individualità, i passaggi per appropriarsi della propria identità, il passare del tempo. Le installazioni richiamano l’idea degli antichi teatri delle meraviglie e a questi fa riferimento anche il titolo della mostra,
My Theater. Ma ciò che viene mostrato non ha nulla di meraviglioso, di fittizio, di lontano; è la vita stessa. Quella di una donna di mezza età.
Mai si nasconde dietro a un atteggiamento teatrale, scenografico, costruito l’artista che non teme di ripetere trent’anni dopo un progetto come
My New Theater VI, Good Morning, Good Night ‘06. Per un mese l’artista si è svegliata e addormentata “salutando” la macchina da presa.
Lo ha fatto nel ‘76, lo ha rifatto nel 2006. E in questa ripresa fissa la videocamera si riflette con lei in uno specchio: è una seconda protagonista. Per Jonas, che ha iniziato a fare arte negli anni ‘60, il video è sempre stato un mezzo espressivo fondamentale, e non solo uno strumento per documentare le sue performance, ma un simbolo dello sguardo dell’Altro con cui confrontarsi. L’artista ha sfruttato il prodigio -per usare un termine da
wunderkammer– della cinepresa come qualcosa che è entrato a far parte della sua arte così come della sua vita. Niente a che vedere con un’idea di Grande fratello che osserva di nascosto dall’alto. Nelle sue opere, infatti, dietro alla videocamera c’è sempre qualcuno che viene citato nelle didascalie, che non mancano di aggiungere riferimenti biografici e ispirazioni letterarie, che divengono tutt’uno con il video.
Del resto, la cinepresa è un analogo dello specchio, che è un altro elemento centrale della sua ricerca, soprattutto di quella degli anni ’70, in cui moltiplicava parti del proprio corpo per esprimere l’identità femminile come sfaccettata in se stessa. Ma lo specchio è presente anche nelle opere in mostra che fanno parte della serie recente
My New Theater. In
My New Theater II, Big Mirror disegna senza guardare la lavagna nera, ma rivolgendola verso uno specchio, che invece è fuori campo. Gli specchi sono centrali anche nell’installazione
Mirror Pieces (1969-2004), allestita nel piano interrato: qui una tv è rivolta verso una parete di specchi. Al centro è un grande cerchio metallico, come se fossimo noi a doverlo attraversare e come fa il suo cane bianco nel video.
La circolarità del tempo e un cerchio da attraversare rimandano direttamente all’idea di ritualità, d’iniziazione alla vita. La ritualità del legame con la natura è riscontrabile in maniera immediata nel terzo protagonista delle sue opere (oltre a lei e alla cinepresa): il cane. In
My New Theater V, Moving in Place (Dog Dance) (2002-2005) Jonas si agita e i suoi movimenti sono velocizzati dalla videocamera, mentre il cane appare di fronte a lei, immobile a segnare la scansione del tempo.