Tentare
di ordinare l’opera di
Peter Fellin (Revò, Trento, 1920 – Merano, Bolzano, 1999) secondo
categorie formali potrebbe essere un’impresa complessa, se non addirittura
impossibile. L’artista, attivo in Italia e Austria, ha lasciato un corpus di
opere dove l’elemento che subito salta all’occhio è l’estremo eclettismo, la
libertà nell’affrontare svariate tecniche, soggetti e formati. Kunst Meran/o
Arte dedica a questo importante animatore della scena sudtirolese la prima
grande retrospettiva. Più di cento opere testimoniano le rivoluzioni
stilistiche e le divergenze formali che hanno costellato la vita dell’artista.
Il
percorso comincia con i ritratti degli anni ‘30, debitori dello stile di
Leo
Putz ma già maturi nello sguardo fra
lo scrutatore e il sospettoso, a cui Fellin sottopone, come in uno specchio, la
propria individualità. Successivamente, pur rimanendo in ambito figurativo, la
pittura si emancipa da una rappresentazione realistica del mondo, in cerca di
significati più profondi e universali.
I soggetti, caricati in senso cromatico
ed espressionista – in un interessante incrocio tra
Chagall e
Schiele – sembrano penetrati oltre l’apparenza superficiale e svelati nella loro
essenza.
È
comunque a partire dagli anni ‘50 che si realizza la vera svolta nell’arte di
Fellin. Le figure prima si riducono a icone arcaiche, tratteggiate nella loro
essenzialità, per poi scomparire del tutto nella fase astratto/informale della
maturità. Fellin sviluppa un singolare procedimento grafico, dove citazionismo
e scrittura risultano uniti. I nomi dei grandi del passato (
Bach,
Beethoven,
Strawinsky,
Ezra Pound)
diventano la base della pittura, attraverso l’impiego delle lettere alfabetiche
come puri segni pittorici astratti, deformati e resi irriconoscibili dalla
gestualità dell’artista. I lavori materici di
Burri, le forme disseminate di
Capogrossi, l’
action painting e la pittura calligrafica di
Tobey sono i referenti più diretti. In quegli stessi anni,
alla tradizionale pittura da parete Fellin aggiunge nuove forme espressive come
rilievi aggettanti, sculture dipinte e installazioni.
Nella
varietà caleidoscopica delle opere in mostra, gli elementi ricorrenti si
trovano nel tema dello
scrivente,
nell’accesa spiritualità, nel riferimento alla musica e in generale nel
tentativo di definire un nuovo corso dell’arte: un nuovo ambito al di là della
mimesi.
In
altre parole, una
Seconda natura,
come viene dichiarato nel manifesto del 1959: “
È l’artista a possedere la
maggiore capacità tra gli uomini di mostrare l’alito di dio. Ed è soprattutto
questa la funzione della seconda natura che nella sua indipendenza rappresenta
il linguaggio più puro”.
Si
tratta di un manifesto
sui generis,
dove a slanci avanguardisti si contrappone un forte radicamento nella cultura
mitteleuropea e una volontà tutta romantica di stabilire un ruolo per l’artista
e dei confini per l’arte.