Si prenda una grossa dose di sapienza tecnica. La si applichi in maniera pressoché esclusiva alla terracotta e al bronzo. Si aggiunga uno spiccato gusto per la ricerca formale e una virtuosistica capacità di trattare particolari e superfici, senza però cadere nel kitsch. Ed ecco, miracolo alchemico, un artista che meriterebbe molto di più che non essere un semplice nome nel folto panorama degli artisti operanti nella Padova del Rinascimento.
Andrea Brioso detto Riccio (Trento, 1479 – Padova, 1532) visse e operò nel capoluogo euganeo a stretto contatto con gli umanisti, impegnati in un continuo confronto intellettuale con gli antichi. E seppe rielaborare la lezione di
Donatello e
Mantegna con l’ottica di un classicismo certamente filologico, ma senza fossilizzarsi nella pura e semplice imitazione, per quanto dotta e inappuntabile.
Figlio di un orefice, da orefice trattò la materia, portando a livelli estremi di perfezione l’arte (oggi per lo più snobbata) del bronzetto, al punto da essere imitato nelle botteghe degli scultori cittadini, che a lui s’ispiravano nel riprodurre figure di animali, inventare mostri mitologici, costruire scenette erotiche tra satiri e ninfe. Molti usavano persino calchi dal vero. Ma quasi nessuno riuscì ad eguagliare del Riccio la grazia, che ricorda quella di
Benvenuto Cellini.
Si osservi, nella bella mostra al Castello del Buonconsiglio, il capolavoro
Pastore che munge una capra (1506-07):
l’armonia della composizione, basata sull’opposizione diametrale tra uomo e animale, è esaltata da un’esecuzione raffinatissima, con le linee in perfetto equilibrio ma al contempo tutt’altro che statiche, tali anzi da anticipare i bronzetti manieristi, concepiti per essere osservati da punti di vista diversi.
La moda, nella Padova umanistica, era quella, gioiosa e dissacrante, di ritrarre persino santi e beati come fossero eroi classici. Di lì a poco, il vento della Controriforma, soffiando rigido, avrebbe dissolto quest’allegra spensieratezza antica. Gli spifferi sembrano turbare anche il Riccio. Basta guardare il
Cristo morto, sublime terracotta policroma datata 1530 e che rappresenta il Redentore esanime con crudo realismo: la durezza del corpo, in preda al
rigor mortis, è appena mitigata dal labbro socchiuso da cui sembra fuoriuscire ancora un alito di vita; i volumi massicci, mantegneschi, nella loro fissità paradossale rendono esasperante la tensione drammatica.
La mostra trentina – allestita accanto alla raccolta di acqueforti di
Rembrandt della collezione Lazzari Turco Menz, donata nel 1924 al Municipio e custodita nel Museo – raccoglie del Riccio il meglio (con molti pezzi anche notevoli purtroppo ancora di dubbia attribuzione) e ricostruendo il vivacissimo ambiente culturale dell’epoca, apprezzabile nei lavori di
Gian Maria Mosca,
Vincenzo e
Gian Gerolamo Grandi,
Severo da Ravenna,
Agostino Zoppo,
Bartolomeo Bellano e tanti altri. Indispensabile il ponderoso catalogo, ora pietra miliare nella bibliografia.