Perché giochiamo? Per quali motivi perdiamo tempo (o lo investiamo) nel confrontarci con altri o con una macchina? Come scrive Valerio Dehò nel testo in catalogo, il gioco – escluse le funzionalità didattico-educative che accomunano uomini e animali – è indissolubilmente legato alla dimensione della guerra e della sconfitta. Sia esso declinato nella versione letteraria nichilista del
Giocatore di Dostoevskij o nel molto più prosaico lottare contro la macchina onnisciente che accomuna molti dei videogiochi.
Perdere può essere un dramma lancinante oppure solo uno scherzo della finzione, che ci permette una masochistica catarsi da
game over a buon mercato. E proprio questa modalità è una delle cifre più interessanti dell’arte contemporanea: farsi prendere per il naso, per fantasticare, talvolta per pensare o per avere un motivo in più per discutere la banalità del mondo.
Regala una dimensione fiabesca sognante e nel contempo agghiacciante
Chiara Lecca, che mette in scena un teatrino con ruota girevole e una teca di “farfalle” assolutamente atipiche: sono infatti orecchie di maiale tassodermizzate, ma che quasi prendono il volo, una volta pagato il fio alla realtà. Curiosamente, potrebbero sembrare organi genitali femminili con le orecchie: chissà cosa ne direbbe Freud.
È invece molto più
meccanico Francesco Bocchini, che costruisce complessi meccanismi con materiali di recupero, il cui il piacere deriva essenzialmente dall’interazione ripetitiva e dall’ascolto del rumore da scatola magica.
Il silenzio regna eterno nel
Ludus Globi di
Thomas Feuerstein, il quale realizza un parterre ambientale che permette una sorta di sfregamento di sfere celesti, sotto forma di bocce con cui il pubblico può giocare. L’eternità, diceva Eraclito in uno dei suoi frammenti più celebri, “
è un fanciullo che gioca, muovendo i pezzi sulla scacchiera”. Per il filosofo di Efeso, infatti, la vita si srotola nella storia come un gioco in cui chi siede al tavolo non conosce le regole né quindi può elaborare strategie, e la dimensione ludica del fanciullo, nella sua inconsapevolezza, è quindi in grado muovere l’universo. Qui invece non basta che fare un tiro; poi si vedrà, il caso farà il suo corso.
Se per
Marco Di Giovanni il su e giù dell’altalena è un’esperienza impossibile, poiché la struttura è inserita in un ambiente troppo piccolo, in cui il braccio metallico gratta contro il muro, non avendo il
gioco necessario,
Antonio Riello fa burlescamente di ogni italiano il difensore della patria dagli invasori albanesi, che nello spassosissimo videogioco vanno rimandati otre il Canale d’Otranto a fucilate: servirebbe una versione attualizzata, con il mitra puntato contro le coste africane, ma in questo Paese ci sarebbe pure qualcuno che non capirebbe l’ironia e la prenderebbe sul serio.
Non certo uno degli omini di
Josef Rainer, che sanno ridere e giocare nelle pieghe del quotidiano con impalpabile leggerezza.